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El Salvador: un tatuaggio un omicidio. Una macchina da cucire per i diritti umani

Lauren Lancaster
Foto di Lauren Lancaster

Josè Armando, 28 anni. A casa quattro fratelli e una madre. Il padre è morto. Ha la terza media e 15 anni di carcere per omicidio. “Siamo esseri umani e anche se abbiamo sbagliato abbiamo una testa e un cuore”, dice prima di ogni altra cosa. Completamente tatuato anche nel viso. Rappresenta per l’occasione una delegazione di pandilleros. Ogni tatuaggio un omicidio o un amico morto ammazzato. I suoi occhi profondi non nascondono speranza. La sprigionano. Dietro una macchina da cucire si alza e tiene in mano una lista di necessità per il corso di cucito. Un pandilleros alla macchina da cucire. Lo guardo e sorrido. Mi viene proprio da ridere. Vuole diventare sarto e imparare un mestiere.

In El Salvador se hai un tatuaggio non ti danno un lavoro. Esiste un programma per togliere i tatuaggi ma credo che con lui ci vorranno anni. Del resto il tempo in carcere non manca. Rifletto. “Siamo esseri umani e anche se abbiamo sbagliato abbiamo una testa e un cuore” sono parole che hanno sentito da Padre Cocitas, un teologo della liberazione che ha deciso di diventare prete il giorno in cui hanno ucciso Monsignor Oscar Romero. Già, la mia domanda banale “ma quando hai deciso di prendere i voti?” ha avuto una gran risposta: “Quando hanno ucciso Romero, io e altri 40 ragazzi abbiamo deciso di entrare in seminario, hanno ucciso un uomo ma non un’idea di giustizia sulla terra”.

Con il padre sono stato nel carcere di Chalatenango dove da anni le idee di Romero, quelle dell’ultimo Romero “contro la dittatura”, non sono morte e continuano a essere speranza per i “relitti umani” condannati a morire in carcere. Sono 800 nel carcere di Chalatenango. Una struttura che al massimo contiene 300 persone. Attraversiamo con due poliziotti armati di un manganello i corridoi dove sono ammassati i pandilleros. Mangiano per terra. A torso nudo e calzoncini per mostrare i tatuaggi. Tanti, tutti, ovunque. Caldo umido, corridoi e inadeguatezza. Loro salutano, fischiano e sputano a terra. Appartengono alla pandilla Ms (Mara Salvatrucia). Molti di loro non erano ancora nati quando il 24 marzo 1980 Monsignor Romero fu assassinato da sicari di destra, inviati dal generale Roberto D’Aubuisson. La sua morte era stata decisa per le sue denunce sulle violazioni dei diritti umani. E le alte gerarchie ecclesiastiche preferirono volgere altrove lo sguardo. Il prossimo 24 marzo, proclamato dall’Onu Giornata Internazionale per il diritto alla verità per le vittime delle violazioni dei diritti umani in ricordo di Romero, saranno trascorsi 35 anni. 12.775 giorni di violenza senza tregua. L’organizzazione umanitaria Soleterre ha denunciato più volte numerose violazioni di diritti umani che vedono il piccolo paese centroamericano, di soli sei milioni e mezzo di abitanti, detenere il tragico primato dello stato più violento al mondo, soprattutto in termini di violenza sulle donne. Nel 2011 sono stati registrati 647 femminicidi, 12 ogni 100.000 donne. Sempre nel 2011, la polizia ha riportato che 1.272 donne sono state vittime di altre violenze, tra cui lesioni, stupri, molestie sessuali e violenza intrafamiliare. La prima causa di morte violenta non riguarda i conflitti armati, ma il crimine. El Salvador si contende con l’Honduras un altro primato, quello per cui si commettono nel paese il numero maggiore di omicidi al mondo: 41,2 ogni 100.000 abitanti contro i 90.4 dell’Honduras).

Foto di Lauren Lancaster

In El Salvador, come negli altri paesi del Triangulo Norte centro-americano (Messico e Guatemala), i livelli di violenza armata in tempo di pace si avvicinano a quelli delle zone dei conflitti. Tra il 2004 ed il 2009, segnala la Geneva Declaration, “sono state uccise più persone in El Salvador che in Iraq”. La violenza di genere conta, inoltre, sull’impunità di cui possono essere quasi certi gli autori di delitti così efferati. Negli anni scorsi, su 7.000 casi di violenza sessuale denunciati, solo 436 si sono conclusi con una condanna. Soleterre, lavora da oltre 10 anni in El Salvador (e in altri paesi centroamericani) per garantire i diritti inviolabili delle persone e si adopera per favorire la prevenzione della violenza e la pacifica risoluzione delle conflittualità. Il 98% dei delitti commessi in America Centrale rimane irrisolto, sia per la debolezza dei sistemi giudiziari sia per la presenza sempre più ingombrante delle pandilla e maras.

Per questo, mi auguro che il processo di beatificazione di Monsignor Romero possa accendere l’attenzione sulle terribili ingiustizie ancora in atto e che erano le ragioni della sua denuncia e per cui ha pagato con la sua vita.