Giovedì sera il programma è riuscito a incollare davanti alla tv i soliti 2,5 milioni di italiani, grazie ad un format che consente a chi guarda di tenersi a distanza dalle vicende raccontate. Salvo poi farselo complice sui social network
Le Iene le abbiamo visto crescere e ingrigire sotto i nostri occhi e son quasi venti anni che ce le ritroviamo in tv sempre uguali a se stesse. Tutto merito della ferrea identità formale che, come la virilità stempiata di Gary Cooper o gli occhi immersi nelle morbidità gattesche di Marilyn (dei moderni, Paola Cortellesi a parte, non sapremmo cosa ricordare). Sta lì a farceli distinguere dalla pletora dei tanti che popolano lo star system dello show business assicurandogli una nicchia nella distratta memoria dello spettatore. Ed ecco i conduttori fuori campo, che parlano e non si mostrano; i conduttori in campo tirati per i fili dai primi; i passaggi in studi ridotti a nudi fondali, senza traccia di arredi; i reporter da campo abbigliati nero e cappellino, come i software cattivi di Matrix o gli entusiasti religiosi che citofonano per proporti l’abbonamento alla vita eterna. Quanto al merito delle “inchieste” è presto detto: siamo all’immortale filone del “chi l’avrebbe mai detto”, dalla programmata eutanasia alla bizzarra truffa immobiliare, giacché come si sa, parafrasando G. B. Marino (semplice omonimia), è “del poeta il fin la meraviglia”.
Che vuol dire, passando al format de Le Iene, attizzare le reazioni basiche, dalla commozione alla indignazione, ma tenendosene (tenendoci) a distanza grazie al complesso degli accorgimenti estetici che instaurano e incessantemente sottolineano la distinzione fra “noi” che intervistiamo e che guardiamo da casa, e i “loro“, quelli che offrono i drammi e i casi delle loro esistenze, pensando di tirarci dentro mentre in realtà, con l’aiuto del format, noi riusciamo a tenercene a distanza. Come guardassimo alla realtà da un drone telecomandato anziché camminarci in mezzo per davvero.
Ovviamente, a forza di svolazzare il drone delle Iene talvolta va a sbattere, come capita ai mosconi, quando nel mondo reale qualcuno nel mondo sottostante qualcuno capisce come funziona la faccenda e anziché star lì a farsi contemplare riesce a catturare il contemplatore e a farselo complice (basti pensare all’essersi fatti coinvolgere come polli – eravamo a metà del 2013 – da quel furbone del metodo stamina).
E comunque ancora giovedì sera il calabrone è riuscito a portarsi a casa i soliti 2,5 milioni di spettatori, quelli che costantemente lo seguono e se ne infischiano sia del Don Matteo travestito – ci pare – da forestale (Rai1), sia di Russel Crowe Gladiatore (Canale 5), per non dire di Santoro e Porro, spiazzati dalla de-drammatizzazione della politica.
Chi sono i seguaci del drone-moscone? Essenzialmente gli adolescenti e post adolescenti (lo conferma la schiacciante maggioranza di spettatori compresi fra la licenza media e il diploma delle superiori). E con una qualche prevalenza del Nord, come accade ogni volta che un programma evita la chiave della commozione a favore di quella, come giustappunto si diceva, della meraviglia. Roba buona per socializzarla all’istante su Facebook e per ri-parlarne a scuola (“hai visto che roba!?”) il dì successivo.