Dopo otto anni di causa per non aver collegato gli apparecchi al sistema informatico, la multa di 90 miliardi è stata ridotta a 857 milioni complessivi, di cui 335 a carico di Bplus. Assolti Giorgio Tino e Antonio Tagliaferri, all’epoca dei fatti direttore generale e direttore dei giochi dei Monopoli di Stato
Otto anni per passare da 98 miliardi a 857 milioni in tutto. L’intricata saga giudiziaria della maxi multa ai concessionari di slot si è chiusa ieri con la condanna delle ultime due società rimaste nel processo: Bplus e Hbg, che dovranno pagare rispettivamente 335 e 72 milioni di euro (erano 835 e 200 in primo grado). La terza Sezione d’appello della Corte dei Conti ha anche assolto gli ex alti dirigenti dei Monopoli, Giorgio Tino e Antonio Tagliaferri.
È l’epilogo di una vicenda incredibile, iniziata nel 2007 con la citazione dei magistrati contabili della Procura ligure per dieci concessionari: Cogetech, Sisal, Gamenet, Snai, Gmatica, Cirsa, Gtech e Codere (più i due condannati ieri) accusati di non aver collegato gli apparecchi al sistema informatico di controllo dei Monopoli, gestito dalla Sogei, nei tre anni precedenti. Il sistema telematico delle giocate (e delle imposte dovute) doveva essere pronto e funzionante nel 2004, ma ha fatto cilecca per anni, mentre le società continuavano a chiedere il nulla osta e installare macchinette senza curarsi dell’allaccio. Nel 2007, applicando alla lettera le penali previste, il Gat – il Gruppo antifrodi tecnologiche della Finanza – arriva a un calcolo stellare: tra tasse evase, contratti non rispettati, penali, multe e interessi, devono pagare 98 miliardi di euro, una cifra superiore alla raccolta lorda di tutto il settore. La somma viene inserita negli atti di citazione, e dopo un ricalcolo chiesto dalle società, in primo grado la Procura regionale contesta un danno erariale per 90 miliardi.
La prima sentenza arriva solo nel 2012, e ridimensiona di molto l’importo: la sanzione viene ridotta a 2,5 miliardi di euro, 835 dei quali a carico di Bplus, l’unica, insieme a Hbg a contestare la cifra fino all’ultimo, arrivando alla sentenza definitiva di ieri. Gli altri concessionari avevano infatti già chiuso la vertenza pagando il 30 per cento delle somme dovute (430 milioni di euro) con il condono deciso nel 2013 dal governo Letta con il decreto Imu: la cambiale da pagare sull’altare delle larghe intese con Silvio Berlusconi. Con la condanna di ieri il conto finale si ferma a 857 milioni di euro, una cifra distante anni luce dalle contestazioni iniziali. La sanatoria del 2013, unita all’improvviso allontanamento del fondatore e comandante del Gat al tempo delle indagini, Umberto Rapetto (poi dimessosi), è stata al centro di numerose interrogazioni parlamentari e di un ampio dibattito pubblico, alimentato soprattutto dal Movimento 5 Stelle.
La sentenza di ieri complica non poco il futuro di Bplus, vero colosso del settore – 300 posti di lavoro e un miliardo di euro versato all’Erario – creato da Francesco Corallo, figlio di Gaetano, amico del boss mafioso Nitto Santapaola. La società, con base a Londra, ha già depositato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ed è commissariata dallo scorso agosto. Se la casa madre non paga, partirà una complessa procedura permessa da un legge Ue del 2001 per ottenere il denaro, altrimenti si provvederà a un difficile pignoramento dei beni in capo a Bplus Italia.
Il prossimo 12 marzo, il Tar sarà chiamato a pronunciarsi sulla seconda interdittiva antimafia emessa a dicembre dal Prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro. Lo stesso che la scorsa estate ha commissariato Bplus (su segnalazione del presidente dell’Anac, Raffaele Cantone) affidandola all’ex generale della Finanza, Vincenzo Suppa. A fine luglio, infatti, la Procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio, tra gli altri, di Francesco Corallo nell’inchiesta sui presunti finanziamenti illeciti elargiti dalla Bpm di Massimo Ponzellini. Il commissariamento però è scattato dopo la nota con cui l’ex magistrato contabile Alfonso Rossi Brigante – nominato “controllore della legalità” da Bplus in cambio della sospensione dell’interdittiva – ha segnalato che “la società ha interrotto le operazioni controllate”. Nel frattempo – come ha ricostruito Il Fatto – la compagnia inglese ha cambiato nome e ha continuato a drenare risorse verso la casa madre: 12 milioni a giugno, più altri 15 a luglio, riducendo la liquidità. La Direzione distrettuale antimafia indaga anche su una presunta evasione fiscale da 23 milioni, in parte finiti all’estero. A dicembre scorso, Pecoraro ha emesso una nuova interdittiva, segnalando “rapporti contrattuali con esercenti con precedenti penali”, prolungando così il commissariamento. Si decide tutto il 12 marzo.
da Il Fatto Quotidiano del 7 febbraio 2015