Nel volume C'eravamo tanto amati, Elena Del Drago racconta le coppie dell'arte: Felice Casorati e la bella Daphne Maugham, Gilbert e George. Tra scambi epistolari e reciproche ispirazioni, il percorso di artisti uniti nell'opera e nella vita
Chi più chi meno, l’amore per l’arte conquista quasi tutti. Già, ma cosa sarebbe l’arte senza amore? Quello con la A maiuscola, inteso come fusione di mente, corpo e spirito (l’ordine è casuale, a discrezione del lettore). Di questo parla Elena Del Drago nel volume C’eravamo tanto amati (Ed. Electa), gettando luce su ventun intrecci amorosi d’importanti artisti nel corso del Novecento. Per viaggiare fra alcune intense unioni in ordine sparso, molti possono ad esempio ricordare gli enormi fiori carichi di metafore sessuali di Georgia O’Keeffe: ma collegare la sua figura a quella del fotografo e gallerista Alfred Stieglitz è sicuramente meno scontato. Galeotta fu in questo caso Anita, cara amica di Georgia con la quale questa conobbe Stieglitz (di 23 anni più anziano) nella sua galleria newyorkese. Dopo aver ricevuto un rotolo di disegni a carboncino, proprio la stessa Anita decise di portarli all’artista che esclamò il celebre: “At last, a woman on paper!”. Iniziò così una relazione ma soprattutto uno scambio epistolare fra i due artisti che, fra il 1915 e il 1946, arrivò a oltre 25.000 lettere: da 3 a 4 al giorno, a volte anche di oltre 40 pagine. E poi Felice Casorati e la bella Daphne Maugham, con quello che potrebbe apparire il classico excursus amoroso fra maestro e allieva: nella scuola di pittura aperta a Torino dallo stesso Casorati, Daphne (nipote di William Somerset Maugham) fu infatti tra i primi allievi.
Un’unione che si protrasse per tutta una vita, durante la quale Maugham scrisse le più sentite parole: «Lasciami dunque dirti che sono una “moglie” che dipinge: non solo una moglie, ma la moglie di un pittore. Nessuno si aspetterà di vedere né capolavori, né lavori di grande impegno…». Per anni, raccolse fogli di carta persi in terra nello studio di Casorati. Li salvò tutti fino a creare un’enorme collezione che registrò l’opera del marito, come segno di eterna devozione.
Di devozione non si trattò invece nel burrascoso rapporto di soli 3 anni intercorso fra due pietre miliari della fotografia: Man Ray e Lee Miller. Sbarcata a Parigi come modella, già desiderosa di conquistare l’altro lato dell’obiettivo, Lee si presentò alla porta di Ray autoproclamandosi sua nuova discepola. Da poco uscito da un grande amore con “la” modella di Parigi, Kiki de Montparnasse, fu facile per lui invaghirsi di questa talentuosa bellezza, portando avanti una relazione di ambiguità, divisa tra condivisone ed emancipazione: «Tu sei così giovane, bella e libera», scrisse Ray. «Mi detesto quando cerco di intralciare ciò che ammiro di più in te e che trovo così raro nelle donne… Il mio affetto può sopportare un’enormità di cose, più di quanto possa io stesso». Affermazione forse un po’ avventata pensando che, quando Cocteau la volle come interprete del suo film Le sang d’un poète, le chiese di comportarsi come sua moglie anche se non effettivamente sposati.
E poi Gilbert e George, e il colpo di fulmine che subito lì colpi nel caldo 1968 non appena arrivati alla Saint Martins School di Londra: “Yes, we are two people but one artist”. Una legge rimasta intatta, per due artisti ancora dediti a vivere come dandy ottocenteschi vestiti nello stesso modo: fedeli al proprio assistente per anni, ma soprattutto ai numerosi ristoranti indiani in cui consumano tutt’ora i loro pasti fuori da una casa sprovvista di cucina. Ma come non citare infine l’amore indelebile, anche se interrotto, fra Ulay e Marina Abramović: 12 anni si simbiosi resa letterale dalle numerose performance, come “Breathing in/Breathing out”, celebre respirazione bocca a bocca presentata a Belgrado nel 1977 in cui i due artisti svuotarono a turno i polmoni per donare l’aria nel corpo dell’altro. Ma soprattutto “Nightsea Crossing”, dove restando immobili digiunando l’uno davanti all’altro si ripromisero di trasformarsi in oggetti. Performance letale alla coppia quando, dopo 11 giorni di immobilità, Ulay scelse di interromperla per gli eccessivi dolori, non aspettandosi che Marina avrebbe invece proseguito nel comune intento. Forse una delle ultime gocce che sommersero un amore diventato sinonimo stesso dell’arte: in questa stretto, da lei incrinato e in suo nome interrotto con il celebre cammino “The Lovers: The Great Wall Walk” lungo la Muraglia cinese. Con 2.500 km e 90 giorni che percorsero partendo dai due estremi, prima di incontrarsi nel mezzo per dirsi addio.