In questo post, per ragioni di spazio, si esamineranno sommariamente le luci; ci sono anch’esse, come detto, e meritano il giusto rilievo per la loro importanza, ma soprattutto per la centralità della questione complessiva: una seria tutela penale dell’ambiente. Alle ombre sarà necessario dedicare uno o più pezzi successivi. Sono, purtroppo, altrettanto rilevanti anch’esse.
Anzitutto, sia con riferimento al neo-delitto di inquinamento (art. 452 bis c.p.) che a quello di disastro ambientale (art. 452 ter), è stata eliminata la condizione per la quale, per poter configurare i reati, occorreva la previa violazione da parte dell’inquinatore di norme penali o amministrative specificamente poste a tutela dell’ambiente; oggi è necessario e sufficiente che l’autore del fatto abbia agito “abusivamente”.
Gli effetti perversi che la vecchia formulazione avrebbe potuto comportare sono già stati accennati in questo blog.
Il fatto di aver sgombrato il campo da quei possibili “disguidi” applicativi è un elemento di notevole positività.
Così come è certamente significativo l’aver fatto espressamente salva, con una clausola posta in apertura della nuova norma di disastro ambientale (“Fuori dai casi previsti dall’articolo 434”), l’applicabilità della vecchia normativa in materia di disastro cosiddetto “innominato”.
Quando mai si fosse potuta seriamente porre la questione di una, pretesa, sostanziale depenalizzazione, da parte della nuova norma, delle condotte punibili in forza della vigente previsione, con conseguente rischio per i processi in corso per quest’ultimo reato (per esempio, quello “Ilva” di Taranto), il nuovo testo dell’art. 452 ter spazza via queste elucubrazioni e questi timori e mette le popolazioni dei territori massacrati da disastri ambientali di varia natura e misura nella condizione di poter confidare almeno in un regolare processo penale per l’accertamento della verità, non falsato da cambio delle regole del gioco a partita in corso, per non dire da invasioni di campo vere e proprie da parte di altri poteri dello Stato (esecutivo in testa, ça va sans dire), come troppe volte, in questi ultimi anni, abbiamo avuto lo scarso piacere di vedere in vari contesti processuali (e, anche in tal senso, il procedimento di Taranto può vantare il privilegio di poter esser qualificato ormai come un caso di scuola).
Anche questa novella apportata dal lavoro della Commissione è da ritenersi, quindi, del tutto soddisfacente.
L’ultima delle luci che connotano quel lavoro riguarda l’opportuna soppressione della parte del testo approvato dalla Camera con cui si era introdotto anche in ambito di reati ambientali il meccanismo delle “prescrizioni”, già adottato in materia di sicurezza sul lavoro.
In pratica, si attribuiva all’organo di vigilanza che avesse riscontrato un fatto “lieve” il potere di comminare all’autore del fatto una o più prescrizioni per regolarizzare la sua posizione, con conseguente estinzione del reato.
Il meccanismo costruito dalla Camera concedeva, però, agli accertatori poteri di tale ampiezza che si sarebbe corso il rischio di una sostanziale marginalizzazione del ruolo del Pm, che invece dev’essere il “dominus” delle indagini; con conseguente grave pericolo per la stessa effettività della tutela penale della risorsa ambientale in questione.
Per quanto possa risultare “effettiva”, in sé, una tutela penale affidata ad un reato di natura contravvenzionale in un sistema giudiziario di suo “poco effettivo” come il nostro; che è, in fine, la stringente ragione che rende inderogabile l’introduzione nel nostro ordinamento penale dell’unico serio strumento di difesa dell’ambiente: reati finalmente “di serie a”, ossia delitti.
Questa riforma mira a quest’obiettivo vitale: non foss’altro che per questo motivo, essa merita di esser salvata. Purché ai fini dichiarati corrispondano mezzi adeguati, a partire da un testo legislativo davvero utile alla bisogna.