Frequentavo uno stage in blogging e social media, presso una società di marketing. Non di certo l’ambizione della mia vita, ma si sa, per noi giovani assumere il ruolo di stagista ci fa pensare di essere già su un gradino superiore, cui succederà magari la firma di un contratto a tempo indeterminato. Soprattutto se ci si trova a Londra, di cui parlano tutti riempiendosi la bocca con una parola che dalle nostre parti sembri assumere sempre più parvenze mistiche: meritocrazia.
Ed invece anche nella grande metropoli esistono realtà che amo definire “Little Italy”, in cui firmi un contratto di soli tre mesi e poi vieni mandato a casa. In cui non vieni pagato nemmeno il minimo consentito dalla legge, senza nessun rimborso di pasti e trasporto. In cui fanno una raccolta delle idee più fresche per poi dire: “Grazie, ma preferiamo assumere altro personale, non pagato, per altri tre mesi.” Quindi, nel frattempo, ho continuato a lavorare nel ristorante in cui ho iniziato appena approdata in terra d’Albione, full time, per i restanti giorni della settimana. Come ho sempre fatto, anche durante il mio corso di giornalismo alla London School of Journalism.
Una società composta nella stragrande maggioranza da stagisti. In continuo sviluppo per la freschezza delle idee giovanili. Loro ci comprano a parametro zero con il pretesto del fare “quell’esperienza necessaria” in una terra sfrontatamente competitiva, dal più alto tasso di sversamento di materiale umano, in cui lasciarsi trasportare dalla folla è la normalità, affermare la propria individualità è un lusso concesso a pochi, e te lo devi conquistare. E noi, anche solo per la fame di esperienza ci facciamo comprare, sull’onda dell’alibi del passaggio obbligato, del non avere, in fondo, nessun’altra scelta migliore.
Ce ne sono tante di realtà come queste in cui è possibile inciampare. Tutto solo per fare esperienza, quella che in tanti richiedono anche se si tratti di stage non retribuiti o se sì al minimo. Ed è per questo che, nonostante lavorassi lì otto ore al giorno per tre giorni a settimana, l’ho fatto comunque con piacere. Ed ancora, in fondo, ne conservo un buon ricordo. E’ comunque stata un’esperienza in più.
Ma è sempre più facile abboccare nella rete di predatori. Sono in rete addirittura siti dove è possibile “prenotare un internship nella capitale britannica” dietro pagamento di un deposito del 10% sulla somma totale. Una truffa ai danni dei giovani piú inesperti: il pagamento di uno stage è naturalmente illegale.
Con ciò non voglio dire che tutte le aziende si comportano nella stessa maniera. Certo, ce ne sono tante che investono sui loro dipendenti e stagisti in maniera più proficua. Ma soprattutto il settore del giornalismo, media e pubbliche relazioni, sta diventando sempre più terreno fertile per lo sfruttamento di giovani disposti a tutto pur di scalare, gradatamente, l’ impervia montagna del mondo del lavoro e arrivare, un giorno, alla vetta.
Ma come il governo britannico abbia già multato 37 aziende perché pagavano i loro dipendenti meno del minimo sindacale, così bisognerebbe stanare anche loro. L’essere stagisti non significa lavorare meno. Anzi, forse, proprio come fossi regolarmente retribuito o più degli altri per il desiderio di mostrare di saper fare. In Italia, come nel resto del mondo. Il fatto di intraprendere esperienze del genere in terra straniera non ci deve porre in una posizione di sudditanza, del tipo: “però almeno sto facendo un’esperienza a Londra”.
Dovrebbe piuttosto fornirci gli strumenti adatti per comprendere che la dignità di un lavoratore, qualsiasi sia il suo grado, non può essere mai compromessa, nonché la conoscenza dei nostri diritti – tra cui quello sancito per legge ad essere retribuito con un salario minimo garantito pari a 5,93 sterline all’ora, quasi 7 euro (che ad esempio, per un tirocinio part-time di venti ore settimanali, darebbe diritto all’equivalente di 560 euro mensili). Si deve assumere un atteggiamento rispettoso nei confronti delle opportunità che ci vengono concesse, ma mai guardare con timore reverenziale chi ce le offre.
Perché in fondo non dobbiamo nemmeno ringraziare nessun Paese ospitante. Siamo liberi di andare dove ci pare: in caso contrario, l’Europa in quanto tale non avrebbe ragion d’esistere.
di Antonia Di Lorenzo
Venticinquenne napoletana, laureata in Giurisprudenza ed ex studentessa presso la London School of Journalism. Ha tanti vizi ma un’unica vera dipendenza: la scrittura.
Scrive anche qui: ilnuovo.me, il mio blog personale, Readwave