La Giornata della Memoria arriva una volta all’anno, il 27 gennaio, e rapidamente se ne va. In quell’occasione le pagine dei giornali si riempiono di rievocazioni storiche e di consigli di lettura: moltissimi nuovi romanzi, saggi, biografie che si aggiungono alla vasta letteratura sullo stesso tema.

Chi li leggerà? E quanti hanno letto i grandi testi del passato, capolavori spesso ormai dimenticati?

Personalmente, quest’anno ho deciso di mettere un punto: leggendo e rileggendo. Un nuovo libro, Un mondo senza noi, di Manuela Dviri (Piemme) e una vecchia raccolta di racconti, Cinque storie ferraresi (1963) di Giorgio Bassani (oggi la trovate nell’Universale Feltrinelli).

Il primo è una sorta di biografia familiare che comincia in Dalmazia un paio di secoli fa e arriva fino ad oggi, alla terribile guerra fra Israele e Gaza dell’estate scorsa. Non tanto o non solo un tributo alla famiglia d’origine dell’autrice, quanto l’osservanza di un precetto, il cosiddetto “imperativo del ricordo” (zakhòr in ebraico), fondamentale nel giudaismo.

un mondo senza noiIl secondo è ambientato a Ferrara nell’immediato Dopoguerra e racconta l’opposto: l’ansia degli abitanti della città che registrò il più alto numero di adesioni al fascismo della repubblica di Salò, di gettarsi alle spalle un passato di orrori e persecuzioni. Ma al tempo stesso l’impossibilità di farlo a fronte di superstiti, testimoni, luoghi che recano impressi nelle carni, nella mente, nel selciato i segni incancellabili del passato.

Manuela Dviri, italiana di nascita, israeliana per matrimonio, legata indissolubilmente a entrambi i Paesi, è una donna straordinaria. Nel 1998 ha perso un figlio, Joni, caduto in un agguato mentre prestava il servizio militare al confine con il Libano. Questa perdita così tragica e dolorosa non ha scalfito minimamente la sua fede pacifista, semmai l’ha rafforzata portandola a scrivere e ad agire concretamente per perseguire il sogno di “due popoli e due stati”.

Giorgio Bassani, ebreo e partigiano, poeta e scrittore (Il giardino dei Finzi Contini, Gli occhiali d’oro, entrambi portati sullo schermo: il primo da Vittorio De Sica, il secondo da Giuliano Montaldo) ha consacrato gran parte della sua narrativa all’imperativo del ricordo: attraverso la raffigurazione della vita ferrarese e della comunità ebraica cui apparteneva. Una memoria tutt’altro che elegiaca, anzi giudicatrice di atti e fatti, uomini e comunità esempi di coraggio e viltà.

È stato istruttivo e commovente leggere in due opere così stilisticamente, temporalmente e qualitativamente lontane, la stessa quieta ma irremovibile volontà di sondare l’abisso attraverso le apparentemente piccole banalità del male: granelli di polvere di pregiudizio che diventano valanga con la Vergogna (le leggi razziali del 1938) e catastrofe con la Shoah. L’ottusità di gerarchi e massaie, docenti universitari e bottegai di fronte ad abusi e ingiustizie inconcepibili fino all’anno se non al giorno prima. La madre di Manuela Dviri che non trova il suo nome nel tabellone dei voti a scuola perché gli ebrei sono a parte; che non può ricevere un otto perché agli ebrei non può essere dato più di sette. Il sopravvissuto al lager Geo Josz, traumatizzato e irriconoscibile, la cui sola presenza è intollerabile ai suoi concittadini perché ricorda loro una pagina del recente passato che vorrebbero definitivamente chiusa.

Non c’è recriminazione, tuttavia, nelle pagine di Dviri. Anzi, molte parole sono spese per gli italiani che aiutarono, a rischio della propria vita, gli ebrei perseguitati. Sdegno, quello sì. Per l’acquiescenza di prima e l’indifferenza del dopo guerra: “I sopravvissuti non furono accolti con le fanfare, ma salutati come se fossero stati in vacanza. Nessuno si chiese dov’erano spariti tutti, dal 1943 in poi”.

Girare pagina, dimenticare, ricominciare. Non chiederebbe altro chi cammina per la strada di Ferrara dove in quella notte del ’43 furono trucidate dai fascisti undici persone, i loro corpi abbandonati sul marciapiede. Se non fosse per il grido che dalla finestra sopra la farmacia si ode ogni volta che qualcuno si avventura su quel marciapiede: “Ehi!”, “Attento!”. È la voce di chi assistette, non visto, a quel crimine e a qualcos’altro di molto più personale. Qualcuno che non può scordare. E che veglia affinché nessun altro dimentichi.

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