Viene difficile finanche crederci. In un ospedale di Napoli, un giovane poco più che trentenne, è morto dopo un paio di notti passate in barella, in corridoio, sotto una finestra con i vetri rotti dalla quale entrava pioggia e vento. Anche il condizionatore, fuori uso, emetteva aria fredda. L’ospedale è quello a pochi passi dall’aeroporto di Capodichino, il “San Giovanni Bosco”.
L’uomo, Ernesto, come migliaia di italiani, nei giorni scorsi si accorge di aver contratto una brutta influenza. Si mette a letto, chiama il medico curante che prescrive le medicine e raccomanda le solite cose. Ernesto si arma di pazienza e obbedisce, ma la situazione non solo non migliora, ma tende a peggiorare. I suoi cari, preoccupati, decidono di ricoveralo in ospedale. Non si sa mai, quest’ anno, dicono gli esperti, il virus sembra essere particolarmente resistente. L’ambulanza lascia il paziente al Pronto Soccorso, ma, purtroppo, letti disponibili non ce ne sono, per cui si provvede a “ricoverarlo” in corridoio, adagiato alla meglio sopra una barella. Ernesto sta male, ha freddo e dalla finestra senza vetri arrivano spifferi di aria gelida.
Dopo un paio di giorni di degenza Ernesto muore. Possibile? Si muore ancora tanto facilmente negli ospedali di Napoli? Che cosa mai è successo? Non lo sappiamo con certezza né vogliamo scaricare la croce addosso a chicchessia. Aspetteremo, rispettosi, i risultai dell’ autopsia per capire che cosa sia accaduto a questo papà di un bambino di 7 anni. Intanto i parenti, addolorati, arrabbiati, increduli, hanno filmato tutto e sporgono denuncia. Vogliono sapere perché il loro congiunto, affetto da una semplice patologia stagionale, sia morto poco dopo l’arrivo in ospedale.
Al di là del risultato dell’ autopsia, però, vogliamo tentare di metterci nei panni dei poveri campani, costretti, loro malgrado, a dover ricorrere alle pubbliche strutture ospedaliere. Non ci viene difficile capire che deve essere terribile per una persona in preda a febbre, tosse, brividi di freddo, dolori articolari, ritrovarsi su una barella scomoda e stretta, in un corridoio, senza alcun rispetto per la propria intimità. Per di più sotto una finestra con i vetri rotti. Purtroppo a Napoli, da tempo, ci siamo accorti che, nonostante la buona volontà del personale medico e paramedico, la sanità pubblica non riesce a fare fronte alle necessità della popolazione. Come in altri campi anche qui ci si “arrangia”.
L’atmosfera negli ospedali il più delle volte è tesa. Medici e paramedici sovente pagano un prezzo alto per colpe che non hanno; pazienti e parenti, arrabbiati e impotenti, scaricano su di essi le loro ansie e le loro paure. Ancora una volta chi ha responsabilità vere non si vede, non c’è. È altrove, perché è altrove che si decide la vita della gente. Pur correndo da un letto all’altro, i camici bianchi non ce la fanno ad assicurare attenzioni e cure adeguate ai ricoverati. Si lavora sempre in uno stato di emergenza. E considerando che spesso si tratta di persone, oltre che ammalate, anche anziane e malandate, non viene difficile capire il loro disagio e la loro sofferenza. Il ricovero in barella, da ritenersi del tutto straordinario per i casi urgenti e imprevedibili, ha finito, con il tempo, almeno in Campania, col diventare del tutto “normale”.
D’altronde gli ammalati non hanno via di scelta: o rimanere appoggiato in corridoio, sperando che si liberi un posto letto, o accettare di essere dimessi. Dimessi? E per andare dove? Naturalmente chi può pagare, per essere curato scappa altrove. Non c’era posto in albergo per Giuseppe e Maria la notte di Natale. Non c’è posto per la nostra gente nemmeno negli ospedali pubblici. Quando spesso volte si rischia di morire e si muore per davvero.
In questo periodo si fa un gran parlare di diritti. Diritti veri, diritti presunti, diritti a volte inventati di sana pianta. Occorre il contributo di tutti – a livello filosofico, politico, economico – perché l’inalienabile diritto alla salute venga messo al centro e assicurato a tutti.