La questione delle bombe è uno dei pilastri dell’accusa dei pm di Trani contro il senatore Ncd Antonio Azzollini e gli altri 61 indagati per l’incredibile appalto del nuovo porto di Molfetta. Secondo i magistrati, la presenza degli esplosivi rimasti sott’acqua dalla prima e dalla seconda guerra mondiale era ben nota in Comune (e in Cmc, la regina delle coop rosse che si è aggiudicata l’appalto nel 2007) ancora prima che la gara partisse, e che quindi fosse nota la “pratica impossibilità”, si legge nelle carte dell’accusa i pm, di realizzare l’opera. Un buona pezza alla tesi dei magistrati è l’ammissione di Giorgio Calderoni, il direttore del cantiere e procuratore della cooperativa ravennate, arrestato nel blitz del 7 ottobre 2013. Intercettato al telefono il 21 maggio 2010, Calderoni commenta la sostanziale immobilità dei lavori: “Probabilmente l’errore è sul fatto che… cioè lo sforzo di seguire questa amministrazione che ha fatto il senatore per il porto eccetera… l’errore è stato quello di concentrarsi tanto anche se c’erano le bombe eccetera, insomma. In realtà, avrebbero prima dovuto aspettare di togliere le bombe però…”. Nettissima sul punto è l’email che il direttore tescnico del cantiere, Carlo Parmigiani, scrive allo stesso Calderoni, suo superiore in Cmc, il 29 giugno 2010 (ben tre anni prima del blocco imposto dalla magistratura, che ha messo sotto sequestro il cantiere, nella foto): “Il porto è a mio avviso palesemente non eseguibile”, scrive Parmigiani, “il problema degli ordigni è solo ed esclusivamente onere della stazione appaltante (il Comune di Molfetta, ndr)”. E conclude: “Se vuoi sapere il mio pensiero, allora vado oltre ed è chiedere di risolvere il contratto in danno alla stazione appaltante”.
Gli ordigni, per lo più scaricati in mare dalle varie forze in campo intorno all’Armistizio dell’8 settembre 1943 e fino al primo Dopoguerra, contengono tritolo, fosforo (che estratto dall’acqua si incendia), persino iprite, la terribile arma chimica della Grande guerra. Ferrivecchi ancora molto pericolosi, come ha messo agli atti Giambattista Acquatico, comandante del Nucleo Sdai (Servizio difesa antimezzi insidiosi) della Marina militare, impegnato nello specchio d’acqua davanti a Molfetta ormai dal lontano 2009. “L’esplosivo contenuto deve essere considerato estremamente pericoloso”, conferma ai pm, “perché, trovandosi in cattivo stato di conservazione da lungo tempo, non può essere determinato qual è il suo stato di stabilità, e quindi (le bombe, ndr) possono essere estremamente sensibili alle sollecitazioni esterne”. In queste condizioni, dragare il fondale o calare il cemento dei nuovi manufatti è rischiosissimo. D’altro canto, l’individuazione, il recupero e la neutralizzazione di migliaia di reperti bellici nascosti nella fanghiglia del bacino foraneo è impresa laboriosa ed estenuante.
Il progetto del porto di Molfetta, insomma, nasce carico di vizi e pesanti controindicazioni. Già sollevate nel 2009 da una delibera della Vigilanza lavori dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori servizi e forniture. Tra le contestazioni, trasmesse ai magistrati pugliesi dal dirigente Maurizio Ivagnes, “la non completa definizione del progetto definitivo dei lavori, che non consente la completa definizione dei costi e dei tempi per la realizzazione dell’intervento”. E ancora “l’illegittima validazione, per l’assenza delle approvazioni ed autorizzazioni, necessarie alla immediata cantierabilità del progetto. E’ risultato, infatti, in sede ispettiva, che le aree non erano disponibili”, sottolinea il documento, “a causa delle attività di bonifica dei fondali dagli ordigni bellici, come dichiarato dal Responsabile unico del progetto (Balduzzi, poi arrestato, ndr)”, afferma ancora l’Autorità, tutt’altro che nota per il suo attivismo e oggi in corso di assorbimento da parte dell’Autorità nazionale anticorruzione guidata da Raffaele Cantone.
E ancora, una notazione profetica: “Ricordando che il bando richiedeva la disponibilità o il possesso di particolarissimi macchinari, draghe di specifiche ed elevatissime caratteristiche, il mancato inizio dei lavori di dragaggio comporterà la possibilità che l’impresa avanzi in futuro rilevanti importi risarcitori, per fermo cantiere ed inutilizzo dei macchinari”. Giusto l’anno dopo Cmc e soci avanzeranno al Comune di Molfetta una richiesta di transazione da 7,8 milioni, accolta senza battere ciglio dalla giunta Azzollini (un altro pilastro dell’accusa dei pm di Trani contro il sindaco-senatore).
La citata draga, una sorta di gigantesco aratro navigante, è un portento meccanico nella disponibilità di un’unica ditta in Italia, che l’ha messa a disposizione della Cmc. Si chiama D’Artagnan e così, nel nome del celebre moschettiere è stata battezzata l’inchiesta della Procura di Trani, dato il sospetto che nel bando i requisiti tecnici fossero così specifici da escludere qualcunque altra azienda non ne fosse dotata. (Ha collaborato Mary Tota)