Grazie all’entrata in vigore nel 2005 della direttiva europea sul risparmio entrammo in possesso di elementi concreti per mostrare come una legge poteva essere manovrata a piacimento delle banche. Ci convincemmo che era giunto il momento di far arrivare queste informazioni ai magistrati di diversi Paesi per farle conoscere all’opinione pubblica. La giustizia avrebbe poi provveduto a comunicare alle altre amministrazioni, tra cui quella fiscale, gli elementi di cui fosse venuta in possesso. Questo era il nostro principale obiettivo, ma ci trovammo subito di fronte a un problema enorme: in Europa non c’erano grandi possibilità di ottenere l’interessamento di uno Stato. Ancora oggi chi vuole denunciare i reati scoperti sul posto di lavoro è costretto a infrangere la legge. Negli Stati Uniti esiste un provvedimento che aiuta e protegge i whistleblowers (coloro che denunciano le attività illegali di un’organizzazione), mentre in Europa sono solo i pentiti di mafia ad avere una protezione. Per il mondo della finanza non è previsto nulla del genere.GetContent (1)

Scegliere un nome in codice
Tra gli investigatori francesi ce n’erano molti che non erano d’accordo con il progetto del presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy di abolire la polizia doganale, ed è stato da loro che è arrivato l’aiuto di cui avevo bisogno. Eravamo un centinaio di persone a lavorare per lo stesso obiettivo, ma soltanto una decina agivano dall’interno della banca, Hsbc. Eravamo consapevoli che, se fosse trapelata la notizia della nostra attività, avremmo potuto subire conseguenze disastrose sul lavoro e nella vita. (…)

Per due anni abbiamo condotto un lavoro preparatorio fondamentale. Bisognava stabilire delle corrispondenze tra ciò che si faceva nella banca e ciò che si leggeva nei manuali di credito e finanza, perché non c’era modo di spiegare a persone esterne a quel mondo, come magistrati e poliziotti, quali erano i meccanismi della Hsbc. Occorreva rendere comprensibili alcune dinamiche per agevolare le indagini giudiziarie, e nello stesso tempo era vitale mantenere il segreto sull’attività che avevamo iniziato. Ci eravamo dati un nome in codice e comunicavamo fra noi con la massima discrezione. Le regole, molto semplici, ci erano state spiegate da poliziotti e magistrati che lottavano contro il crimine organizzato. Durante le riunioni o i colloqui non dovevamo mai portarci dietro i telefoni cellulari e per spostarci non dovevamo mai utilizzare auto private ma sempre i trasporti pubblici, soprattutto i treni. Ero entrato in contatto con gli amici della rete alcuni anni prima, durante il periodo trascorso nel casinò di Montecarlo.

(…) Sono le reti informali, presenti in tutti i paesi, che permettono di realizzare operazioni complesse e delicate. Per esempio, ci sono giornalisti che lavorano per la polizia e altri ancora per i servizi di intelligence. Ma ci sono anche agenti di polizia, della dogana, della guardia di finanza o della polizia giudiziaria che lavorano per i servizi segreti, agevolati dal ruolo che ricoprono. Sono sempre in cerca di informazioni e spesso hanno bisogno di trovarle all’interno delle banche. La prima volta che parlai con uno di loro – che chiamerò Paolo – gli dissi che c’erano diverse persone nella Hsbc che, in un modo o nell’altro, erano disposte ad aiutarci, e che io avrei potuto organizzare il lavoro all’interno. Rispose che, se avessimo avviato l’operazione, avremmo dovuto seguire delle misure di sicurezza rigorose e non avremmo più potuto vederci come d’abitudine. (…)

La collaborazione con l’Italia cominciò a metà del 2009, dopo il mio colloquio con il direttore della Dnef, quando era ormai chiaro che le investigazioni in Francia erano state insabbiate. In quel periodo la vicenda dei documenti della Hsbc sequestrati nel mio computer non era ancora di dominio pubblico e il mio caso, almeno ufficialmente, non esisteva per gli italiani. Lavoravo nel segreto più assoluto con la guardia di finanza, prendendo precauzioni per evitare che qualcuno venisse a conoscenza della mia collaborazione. Ci trovavamo nelle caserme dove, per ragioni di sicurezza, spesso la notte mi fermavo a dormire. Quando gli incontri avvenivano in un hotel indossavo un cappello per non farmi riconoscere dalle videocamere. (…) Andavo spesso in Italia, soprattutto a Torino, e lavoravo in prevalenza per spiegare agli investigatori i sistemi della banca, fino a quando, dall’inizio del 2010, la guardia di finanza ricevette le prime liste della Hsbc grazie agli accordi di cooperazione amministrativa internazionale, e allora cominciai a occuparmi anche di quelle informazioni. Poco tempo dopo, la Procura di Torino ebbe i file da Nizza. Fino a quel momento tutti avevano puntato a ottenere i dati sui clienti, senza occuparsi dei meccanismi, ma il procuratore della Repubblica di Torino Gian Carlo Caselli e l’aggiunto Alberto Perduca erano molto interessati a sapere come funzionava la Hsbc. (…) La guardia di finanza ha lavorato intensamente sui dati della lista, e alcuni nomi di clienti della Hsbc di Ginevra sono finiti sui giornali.

Ma in Italia  reati protetti
A metà del 2011 alcuni funzionari dei servizi segreti italiani mi chiesero se i dati contenuti nel cloud, che non erano mai stati diffusi prima di allora, potevano essere utilizzati almeno a livello di intelligence. Mi fecero diverse proposte di lavoro, perché, una volta acquisiti i dati, bisognava sapere come analizzarli, e solo io ero in grado di farlo. Spiegai che avrei potuto continuare ad aiutarli come avevo sempre fatto, senza ricevere uno stipendio. Non avevo molti soldi, ma lavoravo già all’Inria di Sophia-Antipolis e volevo essere libero di prendere le mie decisioni senza condizionamenti. Soprattutto non mi andava di essere alle dipendenze di un governo. Nonostante la mia disponibilità, l’ipotesi di entrare nel cloud fu abbandonata perché da Roma era arrivato uno stop: quei dati non si potevano né acquisire né analizzare. Era la fine dell’estate del 2011. In Italia il premier era Silvio Berlusconi e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti.

L’aspetto problematico della vicenda era che le leggi italiane, a differenza di quelle spagnole, non consentivano l’uso giudiziario di informazioni ottenute attraverso canali non ufficiali. Tuttavia la guardia di finanza ha indagato a lungo sulle banche svizzere ed è riuscita a capire che i conti aperti nella Confederazione potevano essere gestiti anche dall’Italia. Così nell’ottobre del 2009 ha perquisito le filiali italiane di diversi istituti svizzeri sequestrandone il materiale. L’operazione si è svolta contemporaneamente in tutte le sedi. Le banche però non sono mai finite sotto accusa: le indagini si sono indirizzate soltanto sui clienti che hanno depositato i soldi all’estero.

di Hervé Falciani

da il Fatto Quotidiano di martedì 10 febbraio 2014

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