È morta Kayla Jean Muller, l’operatrice americana tenuta in ostaggio dall’Isis. Lo ha confermato il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Lo scorso 6 febbraio lo Stato Islamico aveva annunciato, su Twitter, che la donna era stata uccisa dai raid messi in atto da Amman subito dopo la barbara uccisione del pilota giordano Muath al-Kasaesbeh, arso vivo dai miliziani. Il Pentagono ha però precisato che la donna non è morta in quella circostanza, ma per mano degli jihadisti: “Non ci sono dubbi”, ha detto il portavoce del Dipartimento della Difesa, l’ammiraglio John Kirby. Funzionari Usa hanno inoltre riferito alla Cnn che l’Isis ha inviato alla famiglia, via mail, delle foto della cooperante, da cui si capirebbe che il decesso è avvenuto “da alcuni giorni”. I familiari, in una nota, si sono detti affranti e hanno diffuso una lettera speditagli da Kayla un anno fa.
La 26enne era stata rapita nell’agosto del 2013, quando lavorava in un ospedale di Aleppo, in Siria. La notizia della sua uccisione nei raid, in cui, accanto alla foto dei bombardamenti si leggeva: “Sotto quelle macerie è stato sepolto l’ostaggio Kayla Jean Muller”, era stata bollata come una calunnia dal ministro dell’Interno della Giordania, Hussein Majali. “Stanno provando a creare una crepa nella coalizione con questa trovata di propaganda”, aveva detto il ministro. Questa presa di posizione era stata condivisa anche dalla direttrice del sito di monitoraggio del jihadismo, Rita Katz, che ipotizzava che fosse stato “lo Stato islamico a uccidere la cooperante per darne la colpa alla coalizione” internazionale guidata dagli Stati Uniti. Anche il Dipartimento della Difesa americano aveva subito precisato che non c’erano prove dell’uccisione della giovane durante i bombardamenti giordani.
“Gli Usa troveranno i terroristi e li porteranno alla giustizia. Sono odiosi e ripugnanti, in netto contrasto con lo spirito di persone come Kayla”, ha affermato il presidente americano dando la notizia della morte di Kayla. Obama aveva dichiarato, pochi giorni prima della notizia diffusa dall’Isis, che gli Usa “stavano facendo di tutto per salvarla”. Per la sua liberazione, il Califfato aveva chiesto oltre sei milioni di dollari, ma Washington ha sempre mantenuto ferma la politica di non pagare il riscatto degli ostaggi, avvertendo anche le famiglie e i parenti degli americani detenuti in Siria o altrove che, se cedessero alle richieste dei terroristi, potrebbero essere perseguiti penalmente.
In un video, postato su Youtube da Kayla nell’ottobre 2011, l’allora 23enne annunciava la sua partecipazione al Syrian sit-in, denunciando i crimini delle autorità siriane nei confronti della popolazione. La ragazza, originaria di Prescott, in Arizona, aveva in passato lavorato diverse volte come volontaria all’estero e decise di andare in Siria per assistere i civili, vittime del conflitto scoppiato a marzo del 2011.