Ogni febbraio c’è il Festival di Sanremo. E ogni Festival di Sanremo, c’è chi scrive o dice che si tratta di un evento nazionalpopolare. Poi vanno in televisione o ci ronzano intorno, questi giornalisti che durante l’anno non sono né nazionali né popolari, a ripetere che il Festival di Sanremo va oltre la canzone, appunto, perché il rango è nazionalpopolare.
E lo dicono e lo scrivono, soprattutto, i giornalisti che non capiscono niente di musica, che non ascoltano mai la musica, che la sfruttano come surrogato intellettuale e dialettico quando organizzano una cena con gli amici. Antonio Gramsci, che non fu inventato da Pippo Baudo per mere questioni anagrafiche (battuta), non considerava con accezione negativa il significato di nazionalpopolare, ma lo scriveva col trattino: nazional-popolare.
Il nazionalpopolare è la vetta per chi vuole essere divulgativo senza ammiccare. Forse, oggi il Festival di Sanremo è il contrario esatto di nazionalpopolare, perché peggiorato, ridimensionato, quasi ridicolizzato. Un Festival che viene ignorato dagli italiani non pensionati, non è nazionalpopolare. Un Festival che arruola cantanti non più famosi o principianti indisciplinati, non è nazionalpopolare. Un Festival che imbarca concorrenti dai programmi di Mediaset e Sky, non è nazionalpopolare. Un Festival che non è irriverente, che non fa caciara, non ha inconvenienti, non è nazionalpopolare. Un Festival con un conduttore adorato dai sessantenni, non è nazionalpopolare.
I giornalisti che ritengono il Festival un momento di orgoglio nazionalpopolare, non sanno cosa dicono e non sanno cosa scrivono. Ma sono perdonati, perché gli aperitivi di Sanremo, le farneticazioni con i colleghi, la sensazione di raccontare una settimana nazionalpopolare, a volte, possono distrarre.