Il ministero dell'Economia ha usato gli strumenti finanziari per proteggersi dal rischio di un “rialzo repentino dei tassi”. Peccato che il mercato sia andato in senso opposto e cosi il loro valore aggiornato al terzo trimestre 2014 è negativo per 36,87 miliardi
Centosessantatre miliardi di euro. E’ questo l’ammontare dei derivati in pancia allo Stato italiano e su cui il Tesoro è stato autorizzato dalla legge di Stabilità a “stipulare accordi di garanzia” sui futuri pagamenti a favore delle banche d’affari con cui ha sottoscritto contratti negli anni Novanta. Nel pacchetto di derivati stipulati dal ministero dell’Economia ce n’è poi uno con una clausola di risoluzione anticipata che può essere esercitata nel 2015. E altri dodici in cui è prevista la possibilità di concludere anzitempo l’intesa con una soluzione “legata al valore di mercato”. Questo, in sintesi, il quadro emerso dall’intervento alla Commissione finanze del responsabile della direzione del debito pubblico, Maria Cannata, nell’ambito dell’indagine conoscitiva parlamentare avviata dopo che il Tesoro aveva in pratica già trasformato le banche d’affari in creditori privilegiati dello Stato italiano nel caso di default del Paese.
Il funzionario del Tesoro ha tuttavia escluso che l’Italia possa trovarsi nuovamente a pagare un caro prezzo alle banche d’affari con cui ha stipulato derivati sulla falsariga di quanto accaduto nel 2012 sotto il governo Monti. All’epoca il Tesoro versò 2,6 miliardi di euro a Morgan Stanley sulla base di una clausola di Additional termination event (Ate), che consente ad una delle due controparti di risolvere il contratto. Quella clausola era “unica nel suo genere” ha spiegato il funzionario che ha difeso la scelta del governo dei tecnici. “Alla fine del 2011 la posizione di credito della Repubblica appariva così fragile che Morgan Stanley ritenne di non poter tralasciare di avvalersi della posizione di forza” legata a una clausola di un contratto quadro sottoscritto nel gennaio 1994”, ha precisato il funzionario. Tuttavia in quell’occasione “il Tesoro ha negoziato attivamente, effettuando alcune ristrutturazioni e chiudendo buona parte del portafoglio con la controparte: anche se l’esborso è stato considerevole, è risultato comunque inferiore a quello che ci sarebbe stato subendo passivamente l’esercizio della clausola”.
Da allora comunque, il Tesoro si è impegnato nella rinegoziazione dei contratti derivati. Secondo quanto riferisce Reuters, da inizio 2011 il ministero dell’Economia ha trattato con le banche d’affari internazionali riuscendo ad eliminare venti clausole di chiusura anticipata. Delle ultime tredici, la risoluzione è riconosciuta ad entrambe le parti “a date predefinite”, come ha specificato la Cannata precisando che nei 163 miliardi di derivati entrano sia 159,6 miliardi di valore nozionale che 3,5 miliardi di una componente marginale aggiuntiva legata alla gestione di posizioni finanziarie attive su mutui ex Cassa Depositi e Prestiti in cui lo Stato è diventato parte creditrice dopo la trasformazione della Cassa in spa nel 2005.
Fatto sta però che i derivati hanno aumentato la spesa per interessi di circa 3 miliardi di euro nel 2013. In più il loro valore di mercato aggiornato al terzo trimestre dello scorso anno è negativo per 36,87 miliardi a causa del “livello assoluto straordinariamente basso dei tassi”. In buona sostanza, il Tesoro ha pensato bene di proteggersi con i derivati dal rischio di un “rialzo repentino dei tassi” come ha spiegato la Cannata. Peccato però che la crisi abbia prodotto uno scenario ben diverso da quello immaginato da via XX settembre con il risultato che l’Italia paga alle banche controparti dei derivati un tasso medio di poco più basso del 4,4 per cento quando il costo del denaro è vicino allo zero.