Lo dico sul serio. Ho grande stima di Sergio Marchionne (e chi se ne importa?). Su molte cose certamente non siamo d’accordo, ma, grazie a Dio, facciamo due diversi mestieri, lui fa l’ad di Fiat-Chrysler e noi cerchiamo di fare al meglio il nostro «lavoro»; lui ha letteralmente salvato la Fiat e la famiglia Agnelli, noi ci muoviamo su un piano decisamente più modesto. Certamente molte scelte, soprattutto per quel che riguarda i rapporti con il sindacato, la sua visione che la Fiat in Italia possa fare quel che vuole non ci piacciono. Ma lui è là in alto e noi restiamo qua, con le nostre preoccupazioni e le nostre miserie quotidiane. Questo però fino a pochi giorni fa.
Infatti, con il suo maglioncino, con il suo fare finto-modesto decisamente sprezzante, che metteva in riga non solo Landini ma tutti i dandy di casa Agnelli-Elkann (ai quali nel contempo riempiva le tasche di dividendi e utili) ci ha sorpresi. Pensavamo non si sarebbe mai piegato alla smaccata genuflessione nei confronti dei «potenti», lui era al di sopra. Mai ci saremmo immaginati di sentirgli dire che «Renzi ha fatto in 11 mesi quello che non è mai stato fatto in anni», dove l’intento non era ironico come potrebbe apparire, ma serissimo ed evidentemente si trattava di sottolineare le capacità del nostro giovane premier, dargli una patente di statista, che ben pochi prima di lui potevano avere. Una caduta di tono? Oppure di nuovo «il re è nudo» e anche l’arrogante ad si appresta a passare alla cassa, come un qualsiasi amichetto toscano del premier? Non capisco.
Insomma l’impressione non è stata delle più piacevoli. Marchionne tra i camerieri italici non me lo figuravo; l’uomo che parlava alla pari con Obama finito ad ossequiare un boy scout fiorentino suona strano. I retropensieri, ma anche le considerazioni più superficiali si sprecano. Che bisogno c’era? Fiat Chrysler ha superato la fase più dura, ora una saggia gestione dovrebbe essere sufficiente a portare buoni risultati, l’epoca dei miracoli necessari sembrava passata. Perfino qualche stabilimento italiano stava riprendendo a funzionare. Che necessità c’era di fare una scelta di schieramento così chiara? Certamente il Jobs Act ha dato qualche vantaggio materiale alla Fiat e alle idee di Marchionne in Italia, ma non al punto da dover passare armi e bagagli tra le truppe renziane. Certi endorsment non sono gratis, sono impegnativi, restano nella memoria e nei fatti, rendono difficili i movimenti in caso di cambio del manovratore. E poi non sono nello stile Fiat-Agnelli.
Marchionne è certamente uomo furbo, ma pensavamo che fosse diretto, che non amasse le decisioni complicate modello sfinge, che non amasse gli inciuci con la politica, anche in un paese che vive di queste collusioni. Ci siamo sbagliati evidentemente. Ma non è una bella cosa. La politica italiana certamente consente agli imprenditori di campare. Ma non li fa alzare da terra, li ammorba, impedisce loro di diventare grandi e forti, di raggiungere posizioni importanti sul mercato mondiale, che sono quelle alle quali pensavamo Marchionne ambisse per Fiat Chrysler. Insomma una Fiat amica anche di questo governo non andrà lontano, resterà al massimo quello che è sempre stata, un’impresa grande ma non abbastanza, vorrei ma non posso, scarsamente efficiente e poco competitiva. La Fiat se sceglie di viaggiare con Renzi continuerà ad andare in Panda.