Entrare nell’atelier-abitazione di Luigi Serafini a Lambrate, il Linneo lisergico autore dell’enciclopedia chiamata Codex, è come calarsi nel pozzo di Alice nella periferia di Mosca. La differenza è che qui si sale. Il caseggiato popolare dove si trova il luminoso e colorato spazio è immerso nell’oscurità di una serata milanese livida e fredda. Percorsi due piani con un montacarichi stile sovietico, si entra in un’altra dimensione. Uno spazio mentale dove la fantasia di Serafini si traduce in realtà e lo stile grezzo e disadorno del quartiere è un trucco mimetico.
L’ordine e la precisione regnano nel delirio ma non si sa più dove guardare. C’è l’uomo in frac con testa d’uccello che sta salendo la scala appoggiata al nido e la donna-carota distesa a terra, nuda e circondata da conigli. Disegni deliranti trasformati in materia e a dimensione ‘naturale’. Più che nella realtà ci si aggira dentro la testa di Serafini, a dispetto di qualche lacerto di vita quotidiana: cucina, frigo… Ci sarà anche una camera da letto ma non si vede e bisogna credere sulla parola. Un neon campeggia come relitto luminoso della mostra Luna-pac, al Pac di via Palestro, anno 2007, 11mila visitatori in un mese.
In un mondo dell’arte dominato da ‘mani di merda’ che non sanno fare niente e delegano, Serafini si è permesso di sfondare con il disegno pubblicando il Codex nell’81. Calvino gli dedica un saggio critico. Barthes e Manganelli si interessano a lui. Fellini lo recluta per la locandina del film La voce della luna. Serafini ha imparato a disegnare prima che a camminare o andare in bici senza rotelle. Si immagini un bambino che comunica con la matita e trasforma la fantasia in tratti di grafite inventandosi una realtà parallela. L’autore del Codex, negli anni ’80, è un trentenne con una laurea in architettura ed esperienze di vario tipo che ritorna alla sorgente creativa. Che non è quell’infanzia ‘autistica’ ma la storia di famiglia: gli antenati sono emigrati dalle Marche, Fabriano e dintorni, per produrre carta a Roma.
Serafini forse sta progettando un viaggio in Cina, dove hanno pubblicato il Codex, studia gli ideogrammi che rappresentano un mondo a lui familiare, la trasformazione del segno figurativo nel linguaggio. A sentirlo raccontare dei viaggi giovanili – l’America ma anche Babilonia e l’Africa – ci si chiede che bisogno avesse di spostarsi armato di Rolleiflex. Per concepire la metamorfosi in coccodrillo di una coppia di amanti nella posizione del missionario – forse il disegno più famoso del Codex – c’era bisogno di vedere il rettile nel fiume Congo?
Non si deve pensare a Serafini, artista poliedrico che ha spaziato dal design alla narrativa alla fotografia restando fedele a se stesso, come a qualcuno che vive fuori dalla realtà, isolato rispetto al suo tempo – è nato nel quartiere Prati di Roma nel 1949. Forse non è si è fatto una pera condividendo la spada con Schifano, ma negli album in bianco e nero lo si vede come parte – seppure a se stante – di un gruppo. A un certo punto, in mezzo al gruppo, ci indica una ragazza, una ballerina, che è stata una sua fiamma ed era ‘bellissima’.
Inoltre ci sono le opere più legate a ‘visioni’ attuali. In fondo all’atelier è appeso l’Ex voto propter finem Berlusconis principatus. Non è un ex voto per ringraziare della caduta del cavaliere ma è stato esposto alla Biennale che ha preceduto di pochi mesi quell’evento. Siamo a maggio 2011 e dopo una serie di clamorosi rifiuti piovono adesioni al padiglione dell’arte italiana curato da Sgarbi. Anche Serafini – in primo momento ha posto il veto politico – partecipa ma con un’opera non certo ‘collaborazionista’: questa.
Per capire come funziona il suo cervello bisogna sentire la spiegazione che dà della metamorfosi di Sgarbi da enfant prodige longhiano al personaggio attuale. Serafini apprezza Sgarbi, ne è amico e ricorda quando a una puntata del Maurizo Costanzo Show il critico ha dato in escandescenze coprendo di insulti un’insegnante. Un punto di non ritorno. L’Italia si è fermata a guardarlo. Ma Serafini non si limita alla cronaca: aggiunge un incantamento mitologico saviniano. Se Narciso resta incantato dalla propria immagine riflessa nell’acqua, quale potenza potrà mai avere la televisione che moltiplica per milioni la propria immagine riflessa sullo schermo?
In un mondo dell’arte ormai diventato un ramo qualsiasi del mercato del lusso, il consenso di critica e pubblico di un’opera folle come il Codex, dimostra che c’è ancora spazio per il talento di un disegnatore ma questo spazio non passa per le aste milionarie dei soliti nomi pompati da un sistema a circuito chiuso. Fine della deprecatio temporis. Serafini ha tutta l’aria dell’outsider di successo, dell’irregolare non roso dalle inquietudini. Si divide tra Roma e Milano, appare pienamente rilassato, con l’aria del folle mite e ragionevole, non dimostra l’età di uno che ha visto Malaparte elegantissimo e imponente entrare in un negozio della capitale e De Chirico camminare per piazza di Spagna come inseguendo un’idea invisibile agli altri.
Frequenta le metamorfosi per esorcizzare il proprio mutamento fisico? Racconta che il Codex è stato concepito e realizzato dalle parti del Nazareno, a proposito di mostri-ibridi, incubi e accoppiamenti fantastici. Ci porta infine a mangiare in quello che sembra un classico bar di periferia milanese, dove i pendolari consumano la pausa pranzo. Alla sera i pendolari sono già rientrati percorrendo i viali malinconici e oscuri con nomi come Rimembranze, affollando i tram che girano intorno all’omonima piazza dominata dal gabbiotto-toilette per gli autisti dell’Atm avvolto da una catena, come un salame dalla corda, per evitare minzioni ‘non autorizzate’. Fa sempre più freddo, è sempre più buio e non c’è più anima viva in giro. Il bar si trasforma o meglio si rivela per quello che è: un insospettabile ristorante sardo di pesce, con cozze gigantesche, tartare di tonno squisite, e volendo anche ostriche. Ci viene imposto di non scriverne il nome, peraltro anonimo e insospettabile per non distruggere la metamorfosi milanese.
Video di Alessandro Madron