Se ne sono accorti in pochi, ma la quantità di leggi, decreti, regolamenti, piani anticorruzione negli ultimi anni è letteralmente esplosa. In progressione geometrica rispetto alla pur corposa progressione lineare della corruzione.
Prendete la legge 190 del 2012: ogni ministero deve avere un responsabile anticorruzione, a sua volta coadiuvato da altri responsabili per i diversi settori dell’amministrazione. Ce ne sono così tanti che ormai sono più i responsabili anticorruzione che i corrotti (almeno quelli che sono stati smascherati). Ogni ministero ha poi un piano triennale anticorruzione e dei piani di trasparenza.
Il principio è ben noto, e si ricollega al famoso adagio del gattopardesco principe di Lampedusa: cambiare tutto per non cambiare nulla. E ancor meglio si ispira all’altrettanto famoso facite ammuina, di borbonica memoria: ci si muove freneticamente a vuoto in modo che il sovrano di turno pensi che tutti siano impegnatissimi a servirlo quando in realtà lo stanno bellamente fottendo, se mi è consentito il francesismo. Si dice che il facite ammuina, ordine della Regia marina borbonica, sia un falso storico. Come che sia, illustra così bene lo stato delle cose dell’Italia di ieri e di oggi da essere passato di diritto tra le verità incontrovertibili e sempre invocate.
Naturalmente basta leggerli alcuni dei documenti anticorruzione variamente denominati per capire che nessuno è disposto a scommetterci una beata cippa sulla loro efficacia. Prendete ad esempio il “Piano triennale di prevenzione della corruzione 2013-2016” del Ministero della Difesa. Sono 261 pagine di nulla, aria rifritta mascherata da pensose (e penose, diciamocelo) riflessioni sul destino delle nostre bistrattate istituzioni e sull’immane disastro che incombe su di noi tutti se non si corre presto ai ripari.
Non parliamo poi del “Programma triennale per la trasparenza e l’integrità del Ministero della difesa anni 2014-2016” che ci spiega subito come la trasparenza si applichi solo ai “servizi” resi dalle amministrazioni pubbliche e che, aggiunge, “si evidenzia come i servizi, resi dalla Difesa nel senso sopra specificato, assumono un carattere, per così dire, “marginale” rispetto alle funzioni strategiche di difesa nazionale”. Ergo, non aspettatevi alcuna trasparenza perché secondo i generali e generalissimi italiani la difesa è affar loro, invertendo il noto aforisma di Clemenceau che come ricorderete disse, incazzato nero per l’incompetenza dei suoi generali, “la guerre est une chose trop grave pour la confier aux militaires”. Dunque, da noi non saprete nulla perché quello che facciamo noi, a voi non deve interessare. Principio altamente democratico soprattutto quando in questo modo non si deve rendere conto di voletti più o meno abusivi per ministri e presidenti assortiti.
Sulla base di questa stessa premessa piena di buonsenso, amore per la verità e ispirata alla trasparenza al servizio alla Nazione, nelle scorse settimane, il sottosegretario Rossi ha risposto a un’interrogazione del senatore Marton sull’opportunità di rendere pubbliche le entrate e le uscite delle quote sociali versate per legge all’Ente circoli della Marina, dicendo che ogni socio ha diritto di prendere visione dei bilanci e della documentazione contabile sia del circolo di appartenenza che dell’Ente circoli, e che dunque la cosa non interessa né al Senato, né tantomeno ai cosiddetti cittadini, che come è noto passano le loro serate in canottiera ruttando davanti al televisore e non negli ovattati silenzi dei circoli dei marinai.
Capirete, dunque, come a fine 2014 attendessi con il cuore gonfio di gioia e di trepidante aspettativa la pubblicazione della relazione annuale del responsabile anticorruzione del ministero della Difesa. Non che mi aspettassi granché. Sapete, la sicurezza nazionale, il sacrificio diuturno. Ma, nonostante le poche aspettative e una mia, diciamo così, disincantata visione del mondo militare, sono riuscito a sorprendermi lo stesso di fronte all’immensa presa per i fondelli rappresentata da questa relazione firmata dal tenente generale Giuseppe Fabbri. Dalla quale apprendiamo con gioia che al Ministero della Difesa hanno pressoché debellato malaffare e corruzione. Rimangono solo alcune isole circoscritte di preoccupazione, sfuggite per il momento al lavorio delle ramazze militari. Ma sulle quali si sta lavorando. Apprendiamo anche che, se non fosse per i civili, la corruzione sarebbe stata definitivamente eradicata, come il vaiolo o la poliomelite. Scopriamo che tra il 2013 e il 2014 sono stati avviati 130 procedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti, e che ci sono stati cinque licenziamenti e 109 sospensioni dal servizio oltre a 23 multe. Di questi, però solo 6 riguardavano procedimenti penali per concussione o corruzione. E il tutto a carico esclusivamente dei 30 mila civili della Difesa. I 170 mila militari, invece, risultano totalmente indenni da qualsiasi censura. Un vero miracolo, la dimostrazione di come i valori della militarità facciano premio e vincano anche quel cancro sociale che è la corruzione. Come dire, la ricetta l’abbiamo sotto mano: stellette per tutti e l’Italia potrà tornare a ergersi quel faro di civiltà e moralità che tutti si aspettano. Altro che essere agli ultimi posti delle classifiche mondiali.
Certo, un qualche dubbio viene. Possibile? Si chiederà l’astuto lettore che ricorda di aver sentito pochi giorni prima in tv di una quindicina di marinai arrestati a Taranto e Augusta per tangenti richieste e per alcuni milioni di euro di carburante scomparso. Il fatto è, che anche il miracolo è all’italiana, cioè è il solito bidone. Perché dalla relazione sulla corruzione sono magicamente scomparsi i militari, sulla base di una curiosa interpretazione delle norme sulla corruzione stessa. Sostengono i grecati di casa nostra che, poiché i militari hanno un proprio codice, solo quelle norme si applicano a loro. E poiché lì non si parla di corruzione né tantomeno di relazioni sulla corruzione, per non dire poi della trasparenza che non si applica a loro perché c’è la sicurezza nazionale e soprattutto quello della Difesa non è un servizio ai cittadini (sarà probabilmente un calesse di Troisi) ma un affar loro. Di cui non devono rendere conto se non a loro stessi in un infinito circolo chiuso inattaccabile. Addirittura, sbaragliando tutti i sensi del ridicolo che mente umana possa immaginare, nella relazione anticorruzione alla domanda “Formulare un giudizio sul sistema di tutela del dipendente pubblico che segnala gli illeciti indicando le misure da adottare per rafforzare la garanzia di anonimato e la tutela da azioni discriminatorie” (punto 10.G della relazione stessa) è scritto: “La componente militare del dicastero si attiene agli obblighi previsti dal Codice dell’Ordinamento Militare per quanto attiene il dovere di segnalare alla catena gerarchica qualsiasi evento riguardante la disciplina ed il servizio”. A cosa servono dunque i whistleblower quando c’è già la gerarchia che come il buon pater familias vede e provvede?
Se sei militare sei inevitabilmente, intrinsecamente onesto, dunque perché fare inutili statistiche se il risultato sarà “zero” per definizione? Bastano e avanzano i civili per farsi corrompere. D’altronde abbiamo la controprova, per quanto riguarda la militarità e l’obbligo di riferire ai superiori, in casa della Guardia di finanza. Lì ogni tanto v’è un generale condannato, un colonello arrestato. Tutto secondo tradizione. Trent’anni fa andò in galera mezza gerarchia della stessa Guardia di finanza per aver organizzato un gigantesco contrabbando di petroli. Furono arrestati a decine, tra cui il comandante generale (Raffaele Giudice, generale di corpo d’armata dell’Esercito), il vice comandante (generale Donato Lo Prete) e molti altri. L’uomo che denunciò il tutto già nel 1976, il colonnello Aldo Vitali, venne messo sotto inchiesta e trasferito da Venezia a Palermo dove rimase anni prima di venir riabilitato. Come dice giustamente la relazione: “Il dovere di segnalare alla catena gerarchica qualsiasi evento…”. Direte: ma è stato quasi quarant’anni fa. Ma lo sapete, per i militari la tradizione è tutto.