La notizia, a volte, è quella che non c’è.
Perché sono di passaggio in Italia, e l’idea è stata: ma che succede se mi aggiro per un giorno sotto un niqab, ora che l’Europa è nel panico attentati? Firenze, poi. Con tutti i suoi monumenti. E con il mio passaporto, pieno di timbri siriani. Tra giornalisti, eravamo tutti entusiasti: così entusiasti che abbiamo scommesso su quante volte sarei stata fermata da polizia e carabinieri, e con quanta ruvidità – e abbiamo arruolato un cameraman che mi seguisse di nascosto.
Ma così ti arrestano!, mi ha detto un’amica di al Jazeera quando le ho spedito una foto dal bar sotto casa. Inshallah, ho risposto. Sia fatta la volontà di Dio.
E invece le ho provate tutte, ieri. Niente. Completamente in nero, mi sono infilata tra i pupazzi del Disney Store, tra le madri con i figli nel marsupio, mi sono seduta ai giardinetti, su una panchina accanto ai nonni che guardavano i nipoti giocare, sono entrata in tre chiese, e scientificamente, in tutti i siti più turistici e a rischio attacco, tutti i siti più presidiati, musei, duomi, battisteri, e a uno dei carabinieri ho persino chiesto dove fosse l’est, dove fosse la Mecca, “è l’ora della preghiera”, ho detto, e quello ha confabulato gentile con il collega e mi ha detto: dritto di là, dove mi sono diretta verso Ponte Vecchio, e dopo essere stata ferma immobile venti minuti, ho chiesto a una ragazza di scattarmi una foto con il telefonino, su cui avevo il logo dello Stato Islamico – niente. Allora ho seguito per due isolati due poveri turisti giapponesi, incollata spalla a spalla, mi sono imboscata per mezz’ora nella toilette di un caffè, poi sono entrata da Feltrinelli, ho soppesato i libri sul califfato, Molinari Napoleoni Quirico, e davanti al libro di Houellebecq ho detto alla signora che avevo vicino, e che aveva in mano quello di Magdi Allam: Allah Akbar. Niente. Nei negozi, fossero Armani o i banchi di trippa del Mercato Centrale, nessuno neppure mi ha riservato un moto di sorpresa. Una commessa mi ha sorriso e accolto con un: Shalom!, che è ebraico, in realtà, in arabo è Salam, ma insomma, l’intenzione c’era tutta, e allora, abbattuta, ho interrotto due adolescenti appartati su un muretto dicendo che era vietato da Dio – il ragazzino, senza scomporsi, ha detto: Dio non vieta le cose belle. E avrà avuto non più di 15 anni.
L’unico difensore della patria è stato la guardia giurata della Coop, che mi ha braccato passo passo. Ma non temeva che esplodessi, onestamente – piuttosto, che gli rubassi il ragù.
E’ che pioveva, mi ha detto un amico cronista. C’era poca gente in giro. E’ che gli italiani sono così, recitano: in realtà sono dei razzisti, mi ha detto un altro. No. E’ che abbiamo un’immagine distorta del mondo che raccontiamo. Sempre in cerca della notizia a effetto, del titolo sparato, la foto forte, finiamo per amplificare – e fuorviare. Raccontiamo di quest’Europa terrorizzata non solo dagli jihadisti, ma dai musulmani in generale. E certo, un giorno a Firenze non ha valore di indagine sociologica: ma io ho visto una città aperta, bella. Direi bellissima. Un paio di battute, di sguardi più insistenti di altri, ma niente, assolutamente niente fuori del normale – e un niqab è certo inusuale. Piuttosto, le reazioni si sono avute più in periferia. La cassiera di un caffè, con accento dell’Est Europa, che mi ha trattato come una sguattera, o in stazione, a Santa Maria Novella, la toscanissima addetta delle pulizie che mi ha ringhiato: Chiamo la Polfer o la neuro? E un tunisino, a San Lorenzo, che mi ha detto: Tornatene a casa, o ci cacciano tutti. Scriviamo: il diverso fa paura. E dimentichiamo di specificare: fa paura a chi ha già paura. Perché non è che una guerra tra poveri, questa. Emargina chi è emarginato, chi ha già tutto da perdere.
E il problema però è che con l’Isis non veniamo solo uccisi, in fondo noi giornalisti veniamo uccisi da sempre – veniamo usati. E’ una guerra che si combatte attraverso la paura, questa, attraverso la spettacolarizzazione della ferocia, le decapitazioni, i roghi, quei video che sembrano i trailer di un film. Poi la realtà sul terreno, la realtà reale è un’altra, come vedo in Siria, in Iraq: gli jihadisti non sono affatto forti come sembrano – non l’Isis. E la realtà è un’altra anche qui, dove non c’è il rigetto dell’Islam a cui siamo indotti a credere – se non altro, non nelle forme, nella radicalità in cui ci viene raccontato. Ma questa è una guerra che si combatte sulla paura. Sulle percezioni. Noi giornalisti non siamo le sue vittime: siamo soprattutto le sue armi. Mi sono ricordata di Abdallah, uno dei più noti attivisti di Aleppo. Quando mi diceva: non è questione di sunniti e sciiti, qui. Per capire questa guerra, Marx è più utile del Corano.
A Ponte Vecchio, alla fine, ho chiesto a un dei gioiellieri come mai non si fosse neppure insospettito, dietro la sua vetrina colma di Patek Philippe. Non ha avuto paura? “Quelle vestite così, in genere, vengono dall’Arabia Saudita. Se non ci fossero loro, a comprare, avremmo già chiuso”.