Inatteso dono della collina, si apre improvvisa al fondo di un sentiero raccolto tra boschi e vigneti, prati, campi e ancora boschi.
Accogliente distesa di velluto verde, dolce poltrona, letto, divano, alcova, grembo materno. L’alta siepe di querce, faggi e castagni annulla la vista da tutto il territorio circostante. Dalle montagne che impongono a nord l’inquietante superbia della loro strepitosa bellezza. Dallo sgraziato ammasso di asfalto e cemento, senza amore e senza storia, groviglio tentacolare che oltraggia e annienta una pianura, amica in tempi non lontani di rane e limpidi fossi, docili salici e pruni generosi, viti sospese a filari di gelsi.
Salvata, per sbadataggine o interessata trascuratezza degli idoli della speculazione, dal moloch dei capannoni industriali, la radura rivela la raffinata grazia modesta dei fiori che non hanno conosciuto la mano dell’uomo o il fastidio del geranio e delle rosse begonie sbandierati con volgare persistenza per tutta l’estate.
Qui c’è spazio solo per i teneri lilla delle scabiose o il viola eccitante della salvia dei prati. Danzano cullate dalla brezza le alchemille color avorio, le bianche margherite e i gialli fitti del tarassaco, subito trasformati in soffi di piuma e di luce. Forme che volano leggere. Brusii di api laboriose, radi cinguettii, suoni delicati di una campagna che non è più fatica e fame, ma dolce promessa di pace e riposo. Mele asprigne e succose dai rami dei radi alberi, troppo vecchi per meritarsi il taglio della potatura.
Verranno altre stagioni, regali preziosi della nostra latitudine, lente modifiche per improvvisi stupori. Le variazioni incredibili del giallo e dell’ocra addolciranno l’addio dell’estate, acquisteranno spirituale limpidezza le trame ogni giorno più vuote e trasparenti, eleganza di linee spezzate sui bianchi diamanti di cristallo, lucidi di brina. Dimenticata e inattesa tra le foglie secche sotto gli alberi spogli si ravviverà la dolcezza di ineffabili tappeti di bucaneve e crochi e in alto il soffice tripudio di morbide gemme e delle gialle delicate stelle del corniolo. E ancora si infittirà l’erba e arriverà il momento magico che vorresti fermare per sempre…
Nessun altro desiderio di forme, volumi, colori o suoni per il mio paradiso.
Incisi sull’argilla di lontani deserti altri cercarono fiumi di acque perenni, conoscenza del bene e del male e il dono proibito dell’eternità. Se la giocarono i nostri progenitori sprovveduti, ma agli umani fu consentito di vagare alla ricerca di piccole porzioni di armonia, nel terrestre paradiso della loro mente.
Altri ancora disegnarono sulle tavole di legno battute d’oro solenni re assisi in trono, regine dai mantelli smaglianti e schiere di beati e di angeli in gerarchico ordine disposti. Paradisi dai confini circoscritti che la scienza squarciò, ipotizzando spazi dilatati e serie di galassie infinite, baratro immenso dal quale il pensiero si allontana sgomento. Dove dunque il paradiso?
Assurda e patetica la millenaria presunzione che immagina la perfezione di un’altra esistenza al di là delle stelle e dei mondi.
Per me eternità non pretendo, né modello di felicità diversa da questa.
Annamaria Caligaris, Refrontolo (Treviso)