Pubblichiamo il contributo di un lettore che ha accolto il nostro invito a descrivere ciò che per lui è il paradiso. Per inviare le vostre storie scrivete a lunedi@ilfattoquotidiano.it
Sono stato cattolico fino a 30 anni (ora ne ho 72) ed in quei trent’anni non immaginavo proprio come potesse essere il paradiso. A catechismo ci avevano detto che era un luogo bellissimo, dove si godeva (anzi ci si estasiava) della presenza di Dio e dove tutte le anime erano coinvolte in questa contemplazione. Dopo gli anni del catechismo, quando ormai l’inconscio era stato inciso, questa è rimasta l’idea che era data per scontata.
Da quando ho cominciato a leggere e a riflettere sull’infinitamente grande e sull’infinitamente piccolo, la certezza della creazione da parte di Dio si è squagliata assieme al paradiso, un mondo parallelo inventato anch’esso e creato assieme all’inferno per giustificare la dicotomia premio-castigo, buoni-cattivi. Senza queste giustificazioni il castello sarebbe crollato al primo elementare ragionamento.
Comunque talvolta mi diverto ad immaginare il paradiso e, proprio poco tempo fa, in modo provocatorio, al bar ho chiesto a qualche persona come immaginasse il paradiso. Ebbene non ho ricevuto alcuna descrizione minima, perché quelle persone non l’avevano mai messo a fuoco, immaginato in qualche modo o forma. Lo avevano sempre preso a scatola chiusa.
Per i non credenti la cosa era giustificata ma per i credenti mi incuriosiva che ne dessero per scontata l’esistenza, che non interessasse loro la fine che la loro anima avrebbe fatto dopo la morte. E pensare che si tratta di un soggiorno eterno! Forse l’incertezza della destinazione e la lontananza del momento del distacco dell’anima non li impensieriva. O forse a questo luogo immaginario, nel loro intimo, credevano meno dei non credenti. Del resto non è facile definire un luogo dove l’anima viene collocata da un Dio che dovrebbe essere bontà e giustizia infinita. Una difficile razionalizzazione di luoghi che si può descrivere solo se ci si regola secondo schemi organizzativi umani. Del resto anche il paradiso è un’invenzione umana fatta per illudersi di continuare a campare oltre la breve e spesso misera e tribolata vita finita umana. Qualcuno ha deciso che fosse eterno, di più non si poteva!
Se si utilizza il concetto gerarchico e interclassista della chiesa e il concetto di merito, (sempre secondo gli schemi meritocratici degli interpreti del volere divino: il clero) il paradiso dovrebbe essere come una enorme piramide immateriale, immateriale come l’anima, con tanti strati dall’alto in basso, strati che si allargano sempre più.
Sopra Dio, il Figlio, la Mamma (con il corpo e i vestiti per via dell’ascensione in cielo dogmatizzata) e poi sotto le schiere di angeli e santi (con San Giuseppe padre putativo). Sotto ancora i beati, i martiri, e poi man mano, a seconda dei meriti (che noi non sappiamo ma che la giustizia infinita conosce) tutte le anime degli ex mortali. Miliardi e miliardi di anime in contemplazione eterna dello splendore di Dio.
E questo mi provoca un senso di agorafobia, ma anche di claustrofobia, perché il luogo è indefinito, ma grande e soprattutto le anime restano in contemplazione per l’eternità, nelle stesse posizioni entro la piramide, a meno che non ci sia forse qualche mobilità per meriti intervenuti durante la contemplazione.
Una stessa posizione prolungata per l’eternità: CHE NOIA, che frustrazione! Almeno vista da quaggiù.
Forse è meglio l’inferno, come ha detto Bertrand Russell: In paradiso per il clima, ma in inferno per la compagnia!
Gianluigi Salvador