Cinema

Festival di Berlino 2015, i vincitori: l’Orso d’Oro a “Taxi” dell’iraniano Jajar Panahi

Il lungometraggio ha vinto come miglior film alla 65esima edizione della rassegna internazionale di Berlino. Ha condiviso il premio come miglior regista con il romeno Radu Jude che ha portato in concorso 'Aferimi' e la polacca Malgorzata Szumowksafor con 'Body'

di Anna Maria Pasetti

“Essere privati di fare la propria arte è come essere privati della vita stessa”. Basta questa sentenza annunciata con serietà dal presidente di giuria Darren Aronofsky a far capire a chiunque che l’Orso d’oro della 65ma Berlinale sarebbe andato all’iraniano Jajar Panahi. Regista che ormai il mondo intero sa essere recluso in madrepatria dal 2010 (a seguito dell’arresto) con il divieto non solo di viaggiare ma soprattutto di esprimersi in “opere d’ingegno artistico ed intellettuale” per 20 anni. In altre parole, di fare il suo cinema. Questo non gli ha impedito di regalarci un’opera assai bella, Taxi, girata interamente da una vettura di cui si improvvisa autista e attraverso la quale osserva la sua città, la sua gente, con sguardi di intenso metacinema (arriva fino a tre livelli di punti di vista), con la delega ai passeggeri di far capire l’atrocità di cui sono vittime lui e altri artisti iraniani, “contrari” alle regole imposte dal fondamentalismo islamico che detiene il potere in Iran. Naturalmente assente il regista, la delega al ritiro del premio è stata data alla nipotina Hana Panahi, che pure compare nel film. Salita sul palco la bambina è scoppiata in lacrime alzando l’Orso d’oro per lo zio: un’immagine commovente che nessuno dei presenti e di chi ha assistito alla premiazione in streaming da tutto il mondo facilmente dimenticherà.

E le follie degli estremisti religiosi sono diventate protagoniste anche del discorso del cileno Pablo Larraìn, vincitore dell’Orso d’argento – Gran premio della giuria per il suo magnifico El Club (il film più bello del concorso e vincitore “morale” dell’Orso d’oro) che denuncia l’incapacità della chiesa cattolica di sottoporre i propri prelati criminali (specie pedofili) alla giustizia laica: “Ringrazio per questo premio e invoco che non ci siano più vittime in nome di Dio” ha esclamato il talentuoso regista accompagnato da un applauso d’approvazione. Dal Cile, grande Paese protagonista del palmares di Berlinale 2015, arriva anche il vincitore per l’Orso d’argento per la miglior sceneggiatura: il maestro Patricio Guzmàn per il suo documentario esemplare El botòn de nàcar (Il bottone di madreperla). Curioso che sia un documentario a vincere il riconoscimento per lo “script” ma se forse avrebbe meritato un premio maggiore, di certo questa “bizzarria” ci fa comprendere a fondo quanto ricco di coerenza interna godesse il film di Guzmàn.

A parte l’Orso d’argento – Afred Bauer Prize per l’esordiente guatemalteca Jayro Bustamante per il suo buon Ixcanul (Volcano) – che porta a ben tre premi la “quota latinoamericana” di quest’anno, il resto dei vincitori proviene dall’Europa, diversamente declinata. Sono infatti europei dell’Est i registi a conquistarsi – ex aequo – l’Orso d’argento per la Miglior regia: il rumeno Radu Jude per il suo ambizioso Aferim! e la polacca Malgorzata Szumowska per il buon Body. Ma “l’applausometro europeo” si è certamente alzato all’annuncio dei due vincitori per le migliori interpretazioni, entrambi provenienti dallo stesso bellissimo film: 45 Years di Andrew Haigh. Parliamo dei meravigliosi “very British” Tom Courtenay e dell’inarrivabile Charlotte Rampling. Commossa, ma con la classe da vera lady, ha ricordato che suo padre nel 1936 aveva vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi di Berlino. “Da ambiziosa quanto sono, ho sempre voluto eguagliarlo, specie nella città di Berlino e ora.. eccomi qui, come lui a trionfare con Tom e soprattutto con un film che mi ha permesso di esprimere un pezzo di vita reale”. Il concorso, da anni lontano dalla qualità di quest’edizione mirabilis, ha trovato un altro ex aequo nell’Orso d’argento le “eccellenze nel contributo tecnico”, andato alla fotografia sia del visionario russo Under Electric Clouds di Alexey German Jr che del modesto tedesco Victoria di Sebastian Schipper. L’Italia è uscita a mani vuote, impossibile si è rivelato per l’esordiente Laura Bispuri portare a casa un riconoscimento, ma questo nulla leva all’apprezzamento popolare del suo Vergine giurata, amato da più spettatori della Berlinale provenienti da tutto il mondo.

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