La diatriba tra economisti su quale sia la strada migliore da seguire per uscire dalla trappola del debito, ha raggiunto i massimi livelli quest’anno, perché è emerso con evidenza ormai che la cura dell’austerity non funziona.

Nel mio recentissimo post “La crisi non è colpa del debito ma degli errori madornali commessi dall’Europa” ho messo a fuoco in particolare la gravissima situazione Europea ma la realtà, anche altrove, è tutt’altro che rosea, come evidenzia Robert J. Samuelson nel suo articolo “The great debt debate” sul Washington Post di ieri. Egli prende infatti come base della sua analisi uno studio condotto dal Mc Kinsey Global Institute che rileva come, dal 2007 (data di inizio dell’attuale crisi globale) ad oggi l’entità globale del debito non sia per niente diminuita, nonostante tutti i governi in questo periodo, chi più chi meno, abbiano avviato politiche economiche dirette proprio allo scopo di ridurre l’esposizione debitoria dei propri paesi. Il risultato, stando ai dati di Mc Kinsey è stato esattamente l’opposto: nei 7 anni considerati il debito globale è cresciuto di uno scioccante 40%, portando l’indebitamento globale ad un livello pari al 286% del prodotto interno lordo globale (nel computo, oltre al debito pubblico, rientra anche il debito privato e quello finanziario).

Samuelson cita anche lui l’articolo di Krugman di domenica scorsa ‘Nobody understand debt  dove si sostiene in sostanza che è proprio l’austerity, attuata allo scopo di ridurre il debito, a provocare la crisi. Sul lato opposto egli cita però anche il caso della Cina, che pur avendo agito massicciamente con gli aiuti all’economia e, pur avendone ottenuto nell’immediato ottimi risultati, si trova però ora con un debito totale del 282% che farà sicuramente fatica a smaltire.

Impossibile dargli torto, visto anche l’inesorabile slittamento verso una nuova crisi nella quale scivola l’intera economia globale.

E’ un altro economista di grido: Lawrence Summers a dirlo nel suo articolo  Now’s not the time to raise interest rates (non è ancora il momento di alzare i tassi). Lui infatti raccomanda di lasciar tempo all’economia di riprendersi in modo robusto, per essere meglio preparati quando la nuova crisi si scatenerà (praticamente esorta a non compiere il madornale errore commesso dalla Banca Centrale Europea nel 2011 di cui sopra).

Ma allora, conclude Samuelson, chi ha ragione? Quelli che dicono che per uscire dalla crisi occorre un forte sostegno all’economia, quindi indebitarsi, come hanno fatto gli Usa, oppure tirare le redini dell’austerity, come hanno fatto GB, Spagna e Irlanda, mirando direttamente alla riduzione del debito?

Il mio parere è che nessuna delle due “medicine” è in grado, da sola, di risolvere una situazione così grave e ingarbugliata. Questa è una crisi globale. Non era mai capitato prima! Molto probabilmente ci sarà chi vince e chi perde. Noi dove saremo?

Se l’Europa (che è già in gravissimo ritardo) vuole vincere deve abbandonare subito la politica di austerity che non è servita a ridurre il proprio indebitamento e puntare invece prepotentemente su una politica di crescita supportata sia dagli aiuti finanziari (alle imprese e alle famiglie) della Bce che da una politica di mantenimento di tassi e valuta molto bassi, almeno per il tempo necessario a ravvivare l’inflazione ben oltre il limite del 2%.

E’ assurdo sperare di uscire dalla crisi tenendo la “velocità di crociera” dell’inflazione al 2% (ma adesso è persino negativa) che va benissimo in periodi normali, ma adesso per far ripartire l’economia e ridurre il debito senza scatenare traumi occorre una inflazione almeno doppia e per una decina d’anni.

L‘inflazione è l’unico rimedio possibile per “mangiare” il debito senza provocare i disastri che stanno provocando le politiche di austerity. Con una inflazione al 4% sarebbero sempre le categorie a reddito fisso quelle a soffrire di più tra la popolazione, ma sarebbe una sofferenza molto più moderata e diluita nel tempo. Si tenga conto che, tra l’altro, facendo ripartire l’economia, la forbice del debito si chiuderebbe anche grazie alla crescita del Pil.

Naturalmente in contemporanea bisogna anche attuare serie politiche di controllo della spesa utili a selezionare le spese necessarie, soprattutto per investimenti pubblici e privati, senza far mancare il necessario per le corrette politiche sociali. Anche le riforme idonee a riorganizzare il mondo del lavoro e della produzione sarebbero indispensabili, ma non quelle semplicistiche proposte nel “Job Act” che sono utili solo a compiacere un certo mondo “padronale”. Occorre una seria riforma del lavoro.

Il lavoro non può essere visto solo come una componente oggettiva nell’ottica della produzione. Grazie alle novità tecnologiche, robotiche ed elettroniche la componente “lavoro” si sta assottigliando ovunque. Persino nel campo finanziario i licenziamenti si susseguono a migliaia di unità ogni giorno. Occorre perciò inventare lavori nuovi, che nella fase di transizione potrebbero anche essere poco utili, ma sarebbero comunque utili e necessari a mantenere saldo il tessuto sociale, cardine di ogni nazione.

Dallas, Texas

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