Quali gli effetti di una uscita dall’euro? Salvatore Biasco interviene a commento di uno studio di Realfonzo e Viscione, recentemente commentato sul Fatto. Secondo i due autori sono in errore sia i sostenitori della permanenza nell’euro a tutti i costi sia i teorici dell’uscita dall’euro come soluzione di ogni problema. Biasco la pensa diversamente e, pur criticando l’architettura complessiva dell’Unione Monetaria, sostiene che una uscita dall’euro porterebbe al crollo dell’economia e alla disoccupazione di massa.
L’articolo di Realfonzo e Viscione, dal titolo ‘Gli effetti di un’uscita dall’euro su crescita, occupazione e salari‘, è interessante, fornisce spunti di riflessione, ma si presta anche ad alcuni commenti. Condivido la sua premessa (una continuazione dell’attuale trend rischia di portarci in situazione critica aperta a tutte le dinamiche) nonché l’idea che la questione dell’uscita dall’euro vada posta sul piano strettamente analitico e non ideologico. Benché creda che la situazione attuale ci condanni a un declino inesorabile (e forse domani a una crisi valutaria) penso, tuttavia, che l’uscita dall’euro, per le dinamiche che si porta dietro, ci condanni a una disoccupazione di massa e a un crollo dell’economia, che può durare moltissimi anni come dirò in seguito. Personalmente ho trattato il tema due volte, l’ultima in uscita sulla rivista Il Mulino. Realfonzo e Viscione scrivono né in polemica né in accordo con ciò che sostengo. Se dovesse capitare loro di citare il mio articolo sarei lieto se non mi annoverassero (nella loro dicotomia) tra i sostenitori dell’euro, perché non lo sono. Penso che l’euro sia stata una costruzione sconclusionata che replica, nei suoi buchi, tante delle concezioni liberiste che hanno dominato l’architettura dell’Unione. Ma ormai siamo dentro, e la prospettiva di uscirne può essere foriera di considerevoli disastri. Talvolta mi sorprendo a pensare che se si trattasse oggi di decidere se entrare o no direi “no”.
L’analisi di Realfonzo propende per una prospettiva meno drammatica dall’uscita dall’euro sulla base di esperienze precedenti di svalutazione. Su un punto penso che abbia ragione: è probabile che la mia analisi sconti troppo pessimismo sugli effetti inflazionistici della svalutazione. Tuttavia, nella mia sequenza l’inflazione gioca un ruolo molto modesto e, al limite, potrebbe essere nulla senza cambiarne sostanzialmente la dinamica.
In Realfonzo e Viscione trovo in evidenza conseguenze interamente reali: effetti sull’inflazione, la bilancia dei pagamenti, l’occupazione, la domanda, sulla base delle esperienze passate dei paesi industrializzati. Va benissimo farlo. Ma il punto di partenza dovrebbe essere un’altro, riguardare gli stock e non i flussi, la finanza e non l’economia reale. Non si tratta di immaginare una svalutazione come semplice mutamento del tasso di cambio (come nelle esperienze passate), ma una svalutazione abbinata a aspettative (o realizzazione) di default, che é cosa ben diversa. Immaginiamoci pure che l’uscita dall’euro comporti una svalutazione (iniziale) dell’ordine di quella del 1993, seguita dall’inflazione limitata che l’Italia ebbe allora. Ciò che conta non é il livello effettivo dell’inflazione; sono le aspettative sul suo corso e quelle sulla ristrutturazione del debito che può seguirne.
D’altra parte sarebbe insensato uscire dall’euro e portarci dietro tutto il peso del debito, continuando a tenere una certa austerità per convincere il mercato che esso è solvibile. I tassi di interesse non potrebbero non riflettere le aspettative e dovrebbero comunque essere tenuti alti per non provocare fughe di capitali. I mercati azionari e obbligazionari subirebbero un tracollo. Possiamo mettere tutte le bardature che vogliamo ai movimenti di capitale, ma di sicuro questo non lascerà i tassi a livelli moderati. Se questo e non altro è il punto di partenza, la conseguenza sono perdite spaventose in conto patrimoniale di tutte le istituzioni finanziarie. Altre perdite vengono da contratti verso l’estero. Il crollo delle istituzioni finanziarie comporterebbe blocco del credito, fallimenti delle imprese, perdite di ricchezza privata e pubblica, che si riflette sui consumi (e gli investimenti) e, di nuovo, sulle sofferenze bancarie. Sarebbe inutile sospendere il codice civile sui fallimenti e le coperture delle perdite, perché ciò non tranquillizzerebbe nessuno e non occulterebbe niente. Le nostre banche e assicurazioni dovrebbero portare i libri in tribunale e il salvataggio statale assicurarne la continuità di esercizio. E’ l’intera economia a crollare. Poco importa se, poi, l’inflazione si dimostri contenuta. La fama di buon debitore dell’Italia è svanita e l’era dei bassi tassi di interesse reale anche. D’altra parte, se l’inflazione non ci fosse, la concomitanza dell’aumentato costo delle importazioni e di ragioni di scambio peggiorate comporterebbe che il potere di acquisto di qualche settore dell’economia necessariamente diminuisca. Come Realfonzo giustamente afferma ciò che frena l’inflazione riduce i salari reali e quindi la domanda.
Non vado oltre nelle conseguenze che seguirebbero per l’azione e le variabili pubbliche, perché chiunque può intuirle da solo e certamente non sfuggono a Realfonzo da quell’eccellente economista che è. Le politiche rimarrebbero praticamente prive di qualsiasi agibilità.
Le conseguenze sulla produzione sono nella sequenza finanziaria. Tutte le esperienze precedenti hanno poco significato. Le svalutazioni citate per i paesi occidentali sono avvenute tutte in periodi di domanda sostenuta per l’economia mondiale. Il paese che l’attuava poteva, inoltre, assumere un “a parità di circostanze esterne”, che oggi non si avrebbe se il terzo mercato obbligazionario del mondo dovesse crollare e provocare un contagio internazionale. C’è un modo di non far crollare il mercato finanziario dopo l’uscita dall’euro? Non lo so. Ma sono scettico. Non certo attuando le politiche espansive che Realfonzo e Viscione auspicano per proteggere l’occupazione e che sono mancate negli episodi esaminati. Proviamo a immaginare cosa succederebbe con politiche espansive, percepite come tali dal mercato, senza una protezione dell’euro, della Bce, con un default avvenuto o atteso, cambi liberi e con sentimenti verso l’Italia del tipo espresso in questa lettera finanziaria che invito a leggere (e che tutti dovrebbero leggere). Non rifletterà un’opinione di tutti gli analisti finanziari, ma è certo un’opinione diffusa sul nostro Paese.
Qualsiasi giudizio noi abbiamo dell’euro (il mio è severo), temo che noi siamo locked in se non vogliamo il peggio. E al peggio economico si abbina il peggio sociale e il peggio politico. Paradossalmente l’uscita sarebbe semplice per i paesi che non hanno problemi (o paesi piccoli e assistiti); è pressoché impossibile per i paesi in difficoltà e con alto debito pubblico.
Inutile cercare l’uovo di Colombo nella fuoriuscita dall’euro (che Realfonzo e Viscione non fanno). L’analista (che ho tentato di essere spogliandomi di passioni) ritorna nella possibilità che ammette (e forse desidera) di essere smentito. L’importante è non sbagliare prospettiva nel giudizio che sovraintende la scelta, il che vuol dire, non sbagliare domanda da porsi. Occorre partire da: cosa succede ai nostri mercati finanziari? E da lì si far discendere tutto il resto, con o senza accordo con la mia sequenza. Non è una domanda valida in ogni momento del passato, ma è la domanda chiave oggi.
di Salvatore Biasco (la stesura completa di questo articolo è disponibile su “Economia e politica”)
www.economiaepolitica.it
Economia e politica
Rivista online di critica della politica economica
Zonaeuro - 14 Febbraio 2015
Euroexit, la domanda chiave da porsi: cosa succederebbe ai mercati finanziari?
L’articolo di Realfonzo e Viscione, dal titolo ‘Gli effetti di un’uscita dall’euro su crescita, occupazione e salari‘, è interessante, fornisce spunti di riflessione, ma si presta anche ad alcuni commenti. Condivido la sua premessa (una continuazione dell’attuale trend rischia di portarci in situazione critica aperta a tutte le dinamiche) nonché l’idea che la questione dell’uscita dall’euro vada posta sul piano strettamente analitico e non ideologico. Benché creda che la situazione attuale ci condanni a un declino inesorabile (e forse domani a una crisi valutaria) penso, tuttavia, che l’uscita dall’euro, per le dinamiche che si porta dietro, ci condanni a una disoccupazione di massa e a un crollo dell’economia, che può durare moltissimi anni come dirò in seguito. Personalmente ho trattato il tema due volte, l’ultima in uscita sulla rivista Il Mulino. Realfonzo e Viscione scrivono né in polemica né in accordo con ciò che sostengo. Se dovesse capitare loro di citare il mio articolo sarei lieto se non mi annoverassero (nella loro dicotomia) tra i sostenitori dell’euro, perché non lo sono. Penso che l’euro sia stata una costruzione sconclusionata che replica, nei suoi buchi, tante delle concezioni liberiste che hanno dominato l’architettura dell’Unione. Ma ormai siamo dentro, e la prospettiva di uscirne può essere foriera di considerevoli disastri. Talvolta mi sorprendo a pensare che se si trattasse oggi di decidere se entrare o no direi “no”.
L’analisi di Realfonzo propende per una prospettiva meno drammatica dall’uscita dall’euro sulla base di esperienze precedenti di svalutazione. Su un punto penso che abbia ragione: è probabile che la mia analisi sconti troppo pessimismo sugli effetti inflazionistici della svalutazione. Tuttavia, nella mia sequenza l’inflazione gioca un ruolo molto modesto e, al limite, potrebbe essere nulla senza cambiarne sostanzialmente la dinamica.
In Realfonzo e Viscione trovo in evidenza conseguenze interamente reali: effetti sull’inflazione, la bilancia dei pagamenti, l’occupazione, la domanda, sulla base delle esperienze passate dei paesi industrializzati. Va benissimo farlo. Ma il punto di partenza dovrebbe essere un’altro, riguardare gli stock e non i flussi, la finanza e non l’economia reale. Non si tratta di immaginare una svalutazione come semplice mutamento del tasso di cambio (come nelle esperienze passate), ma una svalutazione abbinata a aspettative (o realizzazione) di default, che é cosa ben diversa. Immaginiamoci pure che l’uscita dall’euro comporti una svalutazione (iniziale) dell’ordine di quella del 1993, seguita dall’inflazione limitata che l’Italia ebbe allora. Ciò che conta non é il livello effettivo dell’inflazione; sono le aspettative sul suo corso e quelle sulla ristrutturazione del debito che può seguirne.
D’altra parte sarebbe insensato uscire dall’euro e portarci dietro tutto il peso del debito, continuando a tenere una certa austerità per convincere il mercato che esso è solvibile. I tassi di interesse non potrebbero non riflettere le aspettative e dovrebbero comunque essere tenuti alti per non provocare fughe di capitali. I mercati azionari e obbligazionari subirebbero un tracollo. Possiamo mettere tutte le bardature che vogliamo ai movimenti di capitale, ma di sicuro questo non lascerà i tassi a livelli moderati. Se questo e non altro è il punto di partenza, la conseguenza sono perdite spaventose in conto patrimoniale di tutte le istituzioni finanziarie. Altre perdite vengono da contratti verso l’estero. Il crollo delle istituzioni finanziarie comporterebbe blocco del credito, fallimenti delle imprese, perdite di ricchezza privata e pubblica, che si riflette sui consumi (e gli investimenti) e, di nuovo, sulle sofferenze bancarie. Sarebbe inutile sospendere il codice civile sui fallimenti e le coperture delle perdite, perché ciò non tranquillizzerebbe nessuno e non occulterebbe niente. Le nostre banche e assicurazioni dovrebbero portare i libri in tribunale e il salvataggio statale assicurarne la continuità di esercizio. E’ l’intera economia a crollare. Poco importa se, poi, l’inflazione si dimostri contenuta. La fama di buon debitore dell’Italia è svanita e l’era dei bassi tassi di interesse reale anche. D’altra parte, se l’inflazione non ci fosse, la concomitanza dell’aumentato costo delle importazioni e di ragioni di scambio peggiorate comporterebbe che il potere di acquisto di qualche settore dell’economia necessariamente diminuisca. Come Realfonzo giustamente afferma ciò che frena l’inflazione riduce i salari reali e quindi la domanda.
Non vado oltre nelle conseguenze che seguirebbero per l’azione e le variabili pubbliche, perché chiunque può intuirle da solo e certamente non sfuggono a Realfonzo da quell’eccellente economista che è. Le politiche rimarrebbero praticamente prive di qualsiasi agibilità.
Le conseguenze sulla produzione sono nella sequenza finanziaria. Tutte le esperienze precedenti hanno poco significato. Le svalutazioni citate per i paesi occidentali sono avvenute tutte in periodi di domanda sostenuta per l’economia mondiale. Il paese che l’attuava poteva, inoltre, assumere un “a parità di circostanze esterne”, che oggi non si avrebbe se il terzo mercato obbligazionario del mondo dovesse crollare e provocare un contagio internazionale. C’è un modo di non far crollare il mercato finanziario dopo l’uscita dall’euro? Non lo so. Ma sono scettico. Non certo attuando le politiche espansive che Realfonzo e Viscione auspicano per proteggere l’occupazione e che sono mancate negli episodi esaminati. Proviamo a immaginare cosa succederebbe con politiche espansive, percepite come tali dal mercato, senza una protezione dell’euro, della Bce, con un default avvenuto o atteso, cambi liberi e con sentimenti verso l’Italia del tipo espresso in questa lettera finanziaria che invito a leggere (e che tutti dovrebbero leggere). Non rifletterà un’opinione di tutti gli analisti finanziari, ma è certo un’opinione diffusa sul nostro Paese.
Qualsiasi giudizio noi abbiamo dell’euro (il mio è severo), temo che noi siamo locked in se non vogliamo il peggio. E al peggio economico si abbina il peggio sociale e il peggio politico. Paradossalmente l’uscita sarebbe semplice per i paesi che non hanno problemi (o paesi piccoli e assistiti); è pressoché impossibile per i paesi in difficoltà e con alto debito pubblico.
Inutile cercare l’uovo di Colombo nella fuoriuscita dall’euro (che Realfonzo e Viscione non fanno). L’analista (che ho tentato di essere spogliandomi di passioni) ritorna nella possibilità che ammette (e forse desidera) di essere smentito. L’importante è non sbagliare prospettiva nel giudizio che sovraintende la scelta, il che vuol dire, non sbagliare domanda da porsi. Occorre partire da: cosa succede ai nostri mercati finanziari? E da lì si far discendere tutto il resto, con o senza accordo con la mia sequenza. Non è una domanda valida in ogni momento del passato, ma è la domanda chiave oggi.
di Salvatore Biasco (la stesura completa di questo articolo è disponibile su “Economia e politica”)
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Il Cairo, 4 mar. (Adnkronos) - I leader arabi concordano di istituire un fondo fiduciario per finanziare la ricostruzione della Striscia di Gaza, devastata dalla guerra, sollecitando il contributo internazionale per accelerare il processo di ricostruzione. Secondo il comunicato finale del vertice della Lega araba al Cairo, visionato dall'Afp, il fondo "riceverà impegni finanziari da tutti i paesi donatori e dalle istituzioni finanziarie" per realizzare progetti di ricostruzione nel territorio.
Tel Aviv, 4 mar. (Adnkronos) - Il Ministero degli Esteri israeliano afferma che la dichiarazione del vertice arabo tenutosi al Cairo per discutere della ricostruzione di Gaza non ha affrontato la realtà della situazione successiva al massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre 2023. "È degno di nota che il feroce attacco terroristico di Hamas non venga menzionato e che non vi sia nemmeno una condanna di questa entità terroristica omicida, nonostante le atrocità documentate", afferma la dichiarazione.
il ministero elogia invece il piano del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di trasferire i cittadini di Gaza, sostenendo — nonostante Trump parli di trasferire tutta la popolazione della Striscia — che in base a questo, "c'è un'opportunità per i cittadini di Gaza di scegliere liberamente. Questo deve essere incoraggiato".
Sana'a, 4 mar. (Adnkronos) - Gli Houthi hanno abbattuto un drone statunitense nei cieli della città portuale di Hodeidah nello Yemen. Lo ha dichiarato portavoce del gruppo, Yahya Saree, in un post su Telegram.
Washington, 4 mar. (Adnkronos) - Secondo due fonti informate sui colloqui, gli Stati Uniti e l'Ucraina potrebbero firmare l'accordo sui minerali già oggi. Lo rende noto Abc News, secondo cui Trump ha indicato ai suoi principali consiglieri che vorrebbe concludere l'accordo prima del suo discorso congiunto al Congresso.
Il Cairo, 4 mar. (Adnkronos) - Il vertice arabo convocato al Cairo ha adottato un piano egiziano per la ricostruzione di Gaza. Lo ha affermato il presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi in una dichiarazione conclusiva. Il piano mira a contrastare le proposte del presidente degli Stati Uniti Donald Trump per una "Riviera mediorientale" con un piano per ricostruire la Striscia devastata senza sfollare la sua popolazione.
Parigi, 4 mar. (Adnkronos/Afp) - Il presidente francese Emmanuel Macron ha accolto con favore la volontà del suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky “di riprendere il dialogo con gli Stati Uniti d'America”, secondo quanto riferito dall'Eliseo.
Il capo di Stato “ha ribadito la determinazione della Francia a lavorare con tutte le parti interessate per attuare una pace solida e duratura in Ucraina”, ha dichiarato la presidenza.
Roma, 4 mar. (Adnkronos) - Elly Schlein è netta sul piano lanciato oggi da Ursula Von der Leyen. "Noi non ci stiamo", la posizione della segretaria del Pd. Una linea che, pur con sfumature diverse, trova d'accordo anche l'area riformista dem. Servono "modifiche", dice Lorenzo Guerini. In particolare, a mettere tutti d'accordo è la bocciatura della proposta della presidente della Commissione Ue sulla possibilità di dirottare i fondi di Coesione sulle spese per la difesa. E non solo. Anche la deroga al patto di Stabilità da parte dei singoli Stati, fuori da regia e investimenti comuni sulla difesa, è giudicata un errore trasversalmente tra i dem.
Schlein ha già annunciato che porterà la posizione del Pd alla riunione dei Socialisti e Democratici giovedì mattina a Bruxelles, il pre-vertice che precede il Consiglio europeo straordinario. In vista dell'appuntamento Schlein oggi ha sentito il premier spagnolo Pedro Sanchez. "Una lunga conversazione sullo scenario internazionale e la complicata situazione mondiale", fanno sapere fonti dem. Quella del Pd è la delegazione più numerosa nella famiglia socialista europea. Senza l'ok dei socialisti il piano Von der Leyen traballa. "È il momento delle scelte e della chiarezza. Abbiamo bisogno di una risposta all'altezza della sfida globale - strategica, economica, politica - al ruolo dell'Europa nel mondo. E questa risposta non è quella presentata oggi", rimarca Schlein.
Negli equilibri interni al Pd, la sollecitazione dei riformisti è quella di lavorare per modificare il piano Von der Leyen, "aiutare ad andare nella direzione giusta" ed evitare che ci si arrocchi in un "no a tutti i costi". L'importante, si spiega, "è non mettere in discussione la necessità dell'aumento di risorse per la difesa europea". Per Guerini si tratta di un'esigenza "ineludibile". Quindi la sollecitazione del presidente del Copasir: "Ora bisogna mettersi al lavoro, innanzitutto all’interno del Pse, per confermare in maniera convinta il nostro impegno per maggiori investimenti e capacità militari europee provando a dare un indirizzo più coerente agli strumenti per farlo".
Per Schlein "quella presentata oggi da Von Der Leyen non è la strada che serve all’Europa. All’Unione europea serve la difesa comune, non il riarmo nazionale. Sono due cose molto diverse". Anche il titolo 'Rearm' ha fatto sobbalzare più di uno e anche la segretaria lo mette in evidenza. "Il piano Von Der Leyen, a partire dal titolo, punta sul riarmo e non emerge un indirizzo politico chiaro verso la difesa comune".
Quindi elenca i nodi: "Indica una serie di strumenti che agevolerebbero la spesa nazionale ma senza porre condizioni sui progetti comuni, sull’interoperabilità dei sistemi. Ci sono molti aspetti da chiarire, ad esempio su come funzionerebbe il nuovo meccanismo in stile Sure, per capire se finanzia progetti comuni o spesa nazionale. Ma questa -avverte- non è la strada giusta. Manca ancora la volontà politica dei governi di fare davvero una difesa comune e in questo piano della Commissione mancano gli investimenti europei finanziati dal debito comune, come durante la pandemia. Così rischia di diventare il mero riarmo nazionale di 27 paesi e noi non ci stiamo".
"Noi -insiste- abbiamo un’idea precisa. Quello che serve oggi è un grande piano di investimenti comuni per l’autonomia strategica dell’Ue, che è insieme cooperazione industriale, coesione sociale, transizione ambientale e digitale, sicurezza energetica e anche difesa comune. Anche, ma non solo! Magari cancellando le altre cruciali priorità su cui i governi sono più divisi. È irrinunciabile contrastare le diseguaglianze che sono aumentate. Per questo è inaccettabile utilizzare i fondi di coesione per finanziare le spese militari nazionali".
Punti critici che vengono rilevati anche dai riformisti. Per Guerini "la proposta Von der Leyen definisce giustamente l’obiettivo in termini di risorse", ma "così come è stata prospettata necessita di essere modificata: è sbagliato l’utilizzo dei fondi di coesione e c’è poco coraggio a sostenere un vero salto in senso europeo delle spese per la difesa". Avverte Alessandro Alfieri: gli strumenti "che mettiamo in campo devono portare ad una maggiore integrazione delle principali aziende della difesa europea. In questo senso, se non vengono messe condizionalità alle deroghe al patto di stabilità, l’aumento dei bilanci dei singoli Paesi verrà speso prevalentemente su mercati extra Ue, da cui oggi dipendiamo per l’80%. Aumentando la dipendenza strategica dagli Usa anziché diminuirla".
Per il coordinatore della minoranza dem, il Pd non dovrà far "mancare il proprio contributo in tutte le sedi così come spiegheremo che serve una narrazione diversa che convinca le opinioni pubbliche europee a sostenere la sfida ineludibile della costruzione della difesa europea. Magari chiamando questa sfida Protect Europe invece di Rearm. Perché anche il linguaggio ha la sua importanza...”.
Interviene anche Giorgio Gori a sollevare criticità: sarebbe "un errore - ritengo, da parte della Commissione Europea - autorizzare maggiori spese per la difesa dei singoli Stati membri, in deroga al patto di stabilità, fuori da una comune regia. Ciò finirebbe per approfondire la frammentazione, senza apprezzabili benefici per la sicurezza comune. La deroga dal patto dovrebbe invece essere autorizzata solo per gli investimenti comuni: così si porrebbero le condizioni per l'avvio di un vero sistema di difesa europeo". E poi "ugualmente discutibile appare poi la contrapposizione tra spesa per la difesa e spesa sociale, suggerita dalla facoltà per gli Stati membri di attingere ai fondi per la coesione". Intanto questa mattina la vicepresidente del Parlamento Ue, Pina Picierno ha lanciato un appello via social per un'Europa 'Libera e forte' in 5 punti, difesa comune compresa. Oltre duemila, finora, le adesioni.