C’è un’annotazione in Diario minimo di Umberto Eco, dove si immagina che, per ricostruire la storia, ci siano rimasti soltanto i libri con i testi delle canzoni di Sanremo. Quale realtà uscirebbe?

Il gruppo dei Cantacronache cessò la sua attività un anno prima di quella folgorante provocazione, nel 1962, ma la rotta perseguita dai cinque componenti (Fausto Amodei, Margherita Galante Garrone “Margot”, Emilio Jona, Sergio Liberovoci, Michele Straniero) è stata subito netta: evadere dall’evasione.

Ora, un bel libro di Chiara Ferrari (Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati), ricostruisce il clima sociale di fine anni Cinquanta, nel vortice del miracolo economico dove il lavoro e le opportunità di ricchezza si scontano nell’oblio del passato e in una spensieratezza che, a ben guardare, non è reale.

Il benessere non arriva per tutti allo stesso modo, e, nel decollo economico del Paese, ci sono i silenziosi sacrifici di milioni di persone: quelli sradicati dall’emigrazione, quelli sottoposti a lunghi turni di lavoro e sottopagati. Era il lato oscuro del boom economico che i Cantacronache volevano narrare: “la fabbrica spegne intorno la vita / Si è creato un bieco deserto, pagato / poche monete, nessuno sorride”. Ci sono poi gli otto minatori caduti sul lavoro raccontati da La zolfara, Per i morti di Reggio Emilia che ricorda i cinque manifestanti uccisi dalla polizia nel luglio ‘60, unitamente al recupero della memoria della Resistenza. Diversi brani fotografano storie di minuta quotidianità come l’amore rincorso di una coppia, che quasi non riesce a vedersi perché i turni di lavoro non combaciano, nella struggente Canzone triste che ha anche Italo Calvino fra i suoi autori. Di quel mondo i Cantacronache rifiutavano tutto, con la colta compostezza piemontese dei toni; rifiutavano tutto, persino il mercato, distanti dal divismo e dalla smania di successo.

Un’esperienza destinata a fallire, arrivata in anticipo sui tempi: chi cantava, allora, la società com’era veramente? Quale riscontro poteva avere fra il pubblico la proposta dei Cantacronache che nemmeno inseguivano l’emergente mercato giovanile?

Eppure quella breve esperienza, dal 1958 al 1962, è stata innovativa e anticipatrice del movimento dei cantautori arrivati qualche anno più tardi, ma i Cantacronache si sono rivelati più estremi e imprevedibili dei loro pur grandi successori: l’idea che il testo sia più importante della musica, l’idea che l’interprete non sia importante perché la canzone ha un valore sociale e appartiene a tutti: esattamente l’opposto della musica al tempo dei talent. Che eresia pensare che la canzone debba avere qualcosa da dire.

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