Cultura

Teatro: ‘Cultura e coglioni’ secondo Kaemmerle

chimentiGli intellettuali, se sono tali, guardano sempre avanti. Alcuni, addirittura, prevedono quello che sarà con le loro opere. La riflessione lasciataci da Luciano Bianciardi si fa più che mai attuale partendo da quel filo, non certo lanciato da lui, dell’affermazione che “con la cultura non si mangia”. In quel solco, su quella labile frontiera, tra il cavalcare la provocazione da una parte e dall’altra non aver timore d’essere esplicito, duro, diretto, sfrontato.

L’analisi del “lavoro culturale” bianciardiano (che già l’attore Angelo Romagnoli aveva intrapreso con la sua alta orazione “Non leggete i libri, fateveli raccontare”), con sarcasmo fine, ironia tagliente e amarezza sottile, è in qualche modo la linea di confine sulla quale ha sempre “guerreggiato” il regista di ‘Cultura e Coglioni’, Andrea Kaemmerle, sonnacchioso tra il non essere commerciale, la voglia di intrattenere con leggerezza ma mai con scontatezza o banali stupidità e allo stesso tempo interessare, accogliere il pubblico, riempire le sale senza per questo dare in pasto alla platea facili contentezze momentanee ma vuote.

Se la prima parte del ragionamento-titolo della produzione di Guascone Teatro, “Cultura” è a dir poco inflazionata e ha perso di un reale senso perché in definitiva tutto quanto è e fa cultura, smuove la società, la imbarca su nuove distanze, fa incedere verso il domani il pensiero e la dialettica, la seconda, “Coglioni”, fa riferimento all’esclamazione volgare (nel senso di popolana, più che popolare) toscana che identifica la parte anatomica maschile con una diffusa noia, soprattutto nel sentir parlare incessantemente, da parte degli intellettuali di turno con le Clarks d’ordinanza, appunto di cultura, della necessità di farla, di proporla, di aumentarne l’offerta.

Oggi, paradossalmente, siamo oberati, sovraffollati, assuefatti, aggrediti dalla cultura in senso lato tra proposte di giornali, tv, libri, mostre, teatri. Il marketing della cultura che non va di pari passo con la provincia. Se, parliamo in questo caso del piccolo imbuto del teatro italiano, aumentano le compagnie e aumentano gli spazi teatrali, non ci lamentiamo se il pubblico, rimanendo più o meno invariato numericamente, non può, non avendo il dono dell’ubiquità, riempire tutte le sale. Così facendo molte buone proposte non trovano residenza e molti spettacoli, seppur di ottima fattura, realizzano in media una replica, così come la maggior parte dei libri che riescono a vendere un numero di copie esigue. Troppa cultura è uguale a zero cultura? E che cos’è in definitiva e come razionalizzare il concetto di “cultura”?

Nell’adattamento di Kaemmerle, dalle parole agre, in bianco e nero e spoetizzanti di Bianciardi, sempre feroce e acido, al termine “cultura”, soprattutto di sinistra, fanno eco vocaboli altisonanti, pesanti e pomposi come assemblee, organici, consigli direttivi, cineforum. Gli schieramenti sembrano netti e ben differenziati nelle due opposte sponde: da una parte l’Internazionale e la Corazzata Potemkin, il dibattito e i comitati, mentre dall’altra quella bassezza d’istinti, che l’esistenza non può rinnegare o pulsioni che non si può far finta di non sentire, e ridanciani fervori. Truffaut o Vanzina. Pare, ad una prima occhiata, che le due spinte siano inconciliabili e che essere critici letterari o cinematografici morettiani comporti noia seriale infinita dalla quale rifuggire. Soprattutto quando la “cultura” è imposta dall’alto e calata alla popolazione come cosa buona e giusta, come un caterpillar, senza aver minimamente (la colpa è, anche oggi, delle amministrazioni locali che per foraggiarsi la bocca di annunci e slogan non ascoltano non tanto la base del partito ma le esigenze della propria comunità di riferimento) sentito cosa realmente poteva occorrere alla gente del posto.

Vengono creati “eventi” o appuntamenti irrinunciabili e immancabili ai quali la popolazione o è “precettata” per fare numero e massa silenziosa e claque ossequiosa e approvante, oppure rimangono pressoché deserti addossando la colpa dell’insuccesso all’essere bieco nostrano moderno che preferisce la partita o il talent sul divano. Una grande fetta della politica che si snoda nei quartieri e nei piccoli centri ama il nome di nicchia, la tematica complessa, l’argomento riservato a pochi fini dicitori e pensatori per poi amareggiarsi se il popolo (quello stesso che si vorrebbe soltanto per gli applausi conclusivi per dimostrare la propria superiorità e la bontà delle proprie scelte, ma di fondo considerato inferiore e dileggiato) decide di non scegliere i fiumi di chiacchiere attorno al sesso degli angeli, soprattutto quando ha cose più tangibili alle quali dover pensare.

Il finale, drammatico nella sua semplificazione, anche questa un’intuizione di quello che sarebbe accaduto con il berlusconismo, con l’intellettuale di turno che, stanco e stufo del sistema del quale è prigioniero suo malgrado e senza divertimento né soddisfazione alcuna, decide di “andare con donne a pagamento”, uniformandosi, ormai sfibrato, alle più basse voglie che emergono dalla pancia del Paese.