L’analisi del “lavoro culturale” bianciardiano (che già l’attore Angelo Romagnoli aveva intrapreso con la sua alta orazione “Non leggete i libri, fateveli raccontare”), con sarcasmo fine, ironia tagliente e amarezza sottile, è in qualche modo la linea di confine sulla quale ha sempre “guerreggiato” il regista di ‘Cultura e Coglioni’, Andrea Kaemmerle, sonnacchioso tra il non essere commerciale, la voglia di intrattenere con leggerezza ma mai con scontatezza o banali stupidità e allo stesso tempo interessare, accogliere il pubblico, riempire le sale senza per questo dare in pasto alla platea facili contentezze momentanee ma vuote.
Se la prima parte del ragionamento-titolo della produzione di Guascone Teatro, “Cultura” è a dir poco inflazionata e ha perso di un reale senso perché in definitiva tutto quanto è e fa cultura, smuove la società, la imbarca su nuove distanze, fa incedere verso il domani il pensiero e la dialettica, la seconda, “Coglioni”, fa riferimento all’esclamazione volgare (nel senso di popolana, più che popolare) toscana che identifica la parte anatomica maschile con una diffusa noia, soprattutto nel sentir parlare incessantemente, da parte degli intellettuali di turno con le Clarks d’ordinanza, appunto di cultura, della necessità di farla, di proporla, di aumentarne l’offerta.
Oggi, paradossalmente, siamo oberati, sovraffollati, assuefatti, aggrediti dalla cultura in senso lato tra proposte di giornali, tv, libri, mostre, teatri. Il marketing della cultura che non va di pari passo con la provincia. Se, parliamo in questo caso del piccolo imbuto del teatro italiano, aumentano le compagnie e aumentano gli spazi teatrali, non ci lamentiamo se il pubblico, rimanendo più o meno invariato numericamente, non può, non avendo il dono dell’ubiquità, riempire tutte le sale. Così facendo molte buone proposte non trovano residenza e molti spettacoli, seppur di ottima fattura, realizzano in media una replica, così come la maggior parte dei libri che riescono a vendere un numero di copie esigue. Troppa cultura è uguale a zero cultura? E che cos’è in definitiva e come razionalizzare il concetto di “cultura”?
Vengono creati “eventi” o appuntamenti irrinunciabili e immancabili ai quali la popolazione o è “precettata” per fare numero e massa silenziosa e claque ossequiosa e approvante, oppure rimangono pressoché deserti addossando la colpa dell’insuccesso all’essere bieco nostrano moderno che preferisce la partita o il talent sul divano. Una grande fetta della politica che si snoda nei quartieri e nei piccoli centri ama il nome di nicchia, la tematica complessa, l’argomento riservato a pochi fini dicitori e pensatori per poi amareggiarsi se il popolo (quello stesso che si vorrebbe soltanto per gli applausi conclusivi per dimostrare la propria superiorità e la bontà delle proprie scelte, ma di fondo considerato inferiore e dileggiato) decide di non scegliere i fiumi di chiacchiere attorno al sesso degli angeli, soprattutto quando ha cose più tangibili alle quali dover pensare.
Il finale, drammatico nella sua semplificazione, anche questa un’intuizione di quello che sarebbe accaduto con il berlusconismo, con l’intellettuale di turno che, stanco e stufo del sistema del quale è prigioniero suo malgrado e senza divertimento né soddisfazione alcuna, decide di “andare con donne a pagamento”, uniformandosi, ormai sfibrato, alle più basse voglie che emergono dalla pancia del Paese.