L'ex premier torna sul conflitto del 2011: "Dopo Gheddafi bisognava mettere tutti attorno a un tavolo, invece ognuno ha pensato di poter giocare il proprio ruolo. C'erano interessi economici. Ora occorre far sì che tutti gli interlocutori si confrontino e impegnare in un lavoro comune Egitto e Algeria. Non c’è altra via che non produca una situazione ancora più catastrofica di quella attuale"
“Una catastrofe per colpa nostra, dell’Occidente“, ripete Prodi. Altro che Iraq, Siria e Kobane. Le bandiere nere del Califfato islamico sventolano a trecento chilometri dalle coste italiane di Lampedusa, Paolo Gentiloni invoca l’intervento armato, perché “la situazione si sta deteriorando”, e viene citato dalla radio dell’Isis come “ministro nemico dell’Italia crociata”. Romano Prodi, ex premier, ex presidente della Commissione europea, già inviato speciale dell’Onu per il Sahel e padre della Fondazione per la collaborazione dei popoli, conosce bene il dossier Libia: “Non era difficile prevedere che si sarebbe arrivati a questo punto, davvero non lo era neppure nel 2011”.
Presidente, adesso che cosa bisogna fare?
Cosa bisogna fare non lo so. Oggi non lo so più, mi creda. So bene quanto si sarebbe dovuto fare dopo la caduta di Gheddafi. Bisognava mettere tutti attorno a un tavolo, invece ognuno ha pensato di poter giocare il proprio ruolo.
Cosa intende?
Si è preferito credere che un primo ministro (il primo nel 2011 fu Mahmud Jibril al-Warfali, ndr) e un parlamento legittimi potessero risolvere le cose da soli, facendo finta di non vedere che la situazione era compromessa in partenza, che alcune fazioni armate avrebbero finito per esser lasciate a loro stesse. Ma il primo ministro non ha mai avuto un potere reale sul territorio.
Come siamo arrivati a tutto questo?
Si tratta di un errore nostro. Delle potenze occidentali. La guerra in Libia del 2011 fu voluta dai francesi per scopi che non lo so… certamente accanto al desiderio di ristabilire i diritti umani c’erano anche interessi economici, diciamo così.
L’Italia?
L’Italia ha addirittura pagato per fare una guerra contro i propri interessi.
Credo che il suo acerrimo nemico di sempre, Silvio Berlusconi, sia d’accordo con lei su questo punto.
Ma sta scherzando? Berlusconi si è fatto trascinare dalla Francia ed è entrato in guerra.
Eppure Berlusconi si professava grande amico del leader libico…
Il presidente del Consiglio in carica era Silvio Berlusconi. Adesso la Libia è caduta nell’anarchia e nel caos più assoluti. La situazione è davvero di una gravità eccezionale, non possiamo fare finta che le nostre azioni non abbiano inciso nel produrre tutto questo.
Ravvisa un pericolo di sicurezza per l’Italia?
La Libia è dietro l’angolo. È un Paese ridotto a essere senza alcuna disciplina, senza controllo, senza alcuna forma di statualità, dove i commercianti di uomini imperversano buttando a mare i disperati che sognano una vita migliore in Europa.
Teme che i terroristi possano arrivare anche sui barconi, come ha detto qualcuno?
I terroristi sono organizzati, altro che barconi.
Ritorno alla prima domanda. Le cancellerie occidentali cosa dovrebbero fare in questo momento secondo lei?
Occorre senza dubbio uno sforza per produrre un minimo risultato nel tentativo di fare sedere tutti gli interlocutori al tavolo e impegnare in un lavoro comune Egitto e Algeria. Non c’è altra via che non produca una situazione ancora più catastrofica di quella attuale.
Pensa che anche gli uomini incappucciati dell’Isis debbano essere fatti sedere al tavolo dei negoziati?
A questa domanda non posso dare una risposta perché è relativa a un presente di cui non voglio parlare.
da il Fatto Quotidiano del 15 febbraio 2015