Finire gambe all’aria? Niente di più facile in tempi di crisi. Può capitare per una cartella esattoriale arrivata all’improvviso. O perché si è perso il lavoro e non si riesce più a far fronte ai debiti contratti per fare acquisti. Può capitare a un privato e alla sua famiglia, ma anche a un libero professionista e a un piccolo imprenditore. Nessuno di loro può accedere a procedure di concordato preventivo per evitare il fallimento, come invece farebbe una società. Queste figure hanno tuttavia a disposizione alcune misure alternative di “composizione della crisi da sovraindebitamento” per rientrare di parte dei loro debiti, cancellando il resto. E ripartire così da zero. Come è successo a Rossella Stucchi, un’impiegata di 53 anni che in seguito a una contestazione del Fisco di tredici anni fa aveva accumulato un debito con Equitalia salito a 87mila euro con l’aggiunta di sanzioni e interessi. Impossibile venirne fuori, visto che anche la rateizzazione (se non si riesce a pagare la cartella in un’unica soluzione, si può chiedere di spalmare il debito anche fino a 10 anni) avrebbe comunque comportato un versamento di oltre mille euro al mese, più o meno quanto il suo stipendio. Così Rossella, con l’assistenza dell’avvocato di Milano Pasquale Lacalandra, si è rivolta al tribunale di Busto Arsizio che ha dato il via libera a un piano per ridurre il suo debito a 11mila euro, un importo individuato in base alle sue attuali possibilità economiche. Si tratta di una delle possibilità offerte dalla legge 3 del 2012, voluta dal governo Monti e poi ritoccata da quello Letta. Le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento sono due: il piano del consumatore e l’accordo di ristrutturazione dei debiti, entrambe simili a un concordato preventivo. Accanto a queste, privati, professionisti e piccoli imprenditori possono anche scegliere una procedura di liquidazione del patrimonio, che comporta la vendita di tutti i beni del debitore.
Il piano del consumatore – Questa procedura è indirizzata esclusivamente alle persone fisiche che non riescono più a fare fronte ai propri debiti oppure che si trovano, secondo quanto prevede la norma, in una “situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile”. I debiti non devono però provenire da un’attività professionale o imprenditoriale. E il debitore deve rivelarsi “meritevole“: non deve cioè aver fatto ricorso a un credito sproporzionato rispetto alle sue capacità patrimoniali. Una volta presentato il piano, il tribunale nomina un organismo di composizione della crisi, con il compito di verificare che il debitore abbia detto la verità sulla consistenza del suo patrimonio e di dare un parere sulla fattibilità e sulla convenienza del piano di rientro parziale proposto. Il debitore può mettere a disposizione anche eventuali crediti futuri, come il Tfr. La decisione finale sull’omologazione spetta al tribunale, senza la necessità del consenso dei creditori che comunque vengono convocati e possono sollevare contestazioni. Il giudice, in ogni caso, dà l’ok al piano se ritiene che questa sia la soluzione migliore possibile anche per chi la contesta. “L’obiettivo della norma – spiega Lacalandra – è quello di dare l’opportunità ai debitori che si trovano in situazioni critiche di riacquistare un ruolo attivo nell’economia e nella società, senza restare schiacciati dal carico dell’indebitamento preesistente. È importante però valutare attentamente le condizioni per poter accedere alla procedura, dato che il tribunale competente dovrà esaminare sia la fattibilità del piano, sia la meritevolezza del debitore”. Se tutto va a buon fine, il vantaggio per il privato è indubbio: può ripagare i propri debiti in misura non integrale, senza dover liquidare il suo intero patrimonio. Se però non rispetta gli impegni assunti con il piano o ha compiuto atti finalizzati a frodare i creditori, rischia che la procedura di composizione della crisi venga convertita automaticamente in quella di liquidazione del patrimonio.
L’accordo di ristrutturazione dei debiti – La seconda procedura, oltre che ai privati, è rivolta anche a professionisti, associazioni, start up innovative, imprenditori agricoli e piccoli commercianti. Questi ultimi devono avere un giro di affari che non raggiunge le soglie di legge per essere soggetti a fallimento: negli ultimi tre anni devono avere avuto in bilancio un attivo patrimoniale inferiore ai 300mila euro, ricavi lordi inferiori a 200mila euro per ogni esercizio e debiti che non superino i 500mila euro. La procedura è simile a quella del piano del consumatore, ma in questo caso è necessario l’accordo dei creditori che rappresentano almeno il 60% dei crediti. Il debitore non deve più soddisfare il requisito di meritevolezza, visto che il piano è subordinato al via libera dei creditori.
Liquidazione del patrimonio – Tutte le figure non soggette a fallimento (privati, professionisti, piccoli imprenditori), se si trovano in uno stato di insolvenza conclamata, possono infine scegliere la procedura di liquidazione del patrimonio, che comporta la messa a disposizione di tutti i beni e i crediti, a eccezione di quelli necessari al mantenimento della famiglia. In cambio è prevista la cancellazione dei debiti che è stato impossibile ripagare. La soluzione è meno conveniente delle precedenti, ma può tornare utile per esempio quando il debitore ha necessità di vendere un alloggio per ripagare i creditori, ma non riesce a trovare acquirenti interessati: sarà un liquidatore, secondo questa procedura, a occuparsi della cessione dell’immobile. La liquidazione resta aperta per quattro anni, periodo in cui il liquidatore ha a disposizione anche i nuovi beni che dovessero aggiungersi al patrimonio del debitore.