Al di là dell’ormai celebre regola del 3 per cento, nella delega fiscale che il governo si appresta a varare ci sono aspetti che mettono in gioco la definizione delle linee fondamentali del progetto economico del Paese. I contenuti della legge concorreranno a disegnare il volto e l’agire del contribuente chiamato a collaborare con il fisco. Ma questo è soprattutto vero per i titolari di redditi da lavoro autonomo o d’impresa, rispetto ai quali l’ottimizzazione del profitto passa sempre attraverso una conveniente pianificazione del risparmio fiscale. Possibilità invece preclusa a coloro cui si applica il prelievo alla fonte, come il lavoro dipendente. Nel disegnare il “nuovo fisco”, il primo rischio è quindi discriminare in termini penali in base alle diverse opportunità offerte dal “censo” del contribuente.
Alcune di queste norme si richiamano infatti alla “ragionevole comprensione” per comportamenti realizzabili solo da soggetti titolari di redditi e patrimoni non esigui, ma poco propensi ad accettare la rigorosa applicazione dei principi di capacità contributiva e di progressività. Più che guidare verso comportamenti virtuosi in termini sociali, le nuove regole paiono adattarsi a molte delle esigenze individualistiche emerse nel recente passato. Esempio lampante è la disciplina sull’abuso del diritto, del quale l’articolo 5 della delega individua l’essenza nell’uso distorto di strumenti giuridici idonei a far ottenere un risparmio d’imposta, con lo scopo prevalente di ricavare indebiti vantaggi fiscali in assenza di ragioni extra-fiscali non marginali. Ciò che non viene chiarito dalla delega è se – e a quali condizioni – un tale fenomeno, certamente illecito in termini tributari (come imposto dalla giurisprudenza comunitaria e della Corte di cassazione), possa anche dirsi mai meritevole di riprovazione penale.
Proprio su questo fronte si stanno assumendo le scelte più politiche. Numerose pronunce della Corte di cassazione hanno delineato il principio di diritto alla cui stregua le condotte elusive ai fini e in termini fiscali possono assumere rilevanza penale solo quando integrano forme elusive già previste e tipizzate dalla legge, in ciò individuando il punto di equilibrio tra il riconoscimento nel diritto tributario di un principio generale antielusivo e i principi di legalità, e dunque di ragionevole prevedibilità del risultato interpretativo, coessenziali alla materia della responsabilità penale. Il legislatore sembra aver reagito alle ragioni e ai risultati di questo prodotto interpretativo, stimandone eccessivo il rischio di interferenza con scelte discrezionali di natura organizzativa, “in funzione del miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente”.
Più realisticamente, la riforma sembra basata sulla presa d’atto di una generalizzata diffusione di tali pratiche di ottimizzazione fiscale, la cui offerta sta diventando, progressivamente, anche il patrimonio prezioso d’importanti strutture e servizi di consulenza, con costi certamente non alla portata di tutti; anche in questo caso, è il censo che decide. Le conseguenze sulla struttura economica del Paese di una massificata affermazione dell’irrilevanza penale per comportamenti autenticamente abusivi in termini fiscali, sono immaginabili: basti considerare il pallido livello di dissuasione dei controlli amministrativi, percentualmente esigui e assai ridotti in termini di efficacia. Ne costituiscono sconfortanti conferme i volumi del sommerso e dell’evasione di massa, così come quelli dell’evasione accertata e non riscossa. Non altrettanto chiara è quale tipologia di imprenditore risulterà dominante in conseguenza delle nuove regole, e quale equilibrio ne potrà derivare con le esigenze sociali. Nel prossimo futuro, per la dichiarazione infedele diventerà neutro aver indicato “costi non inerenti” (ad esempio quelli sostenuti dall’amministratore per comprarsi lo yacht personale, evitando di pagare i creditori sociali). Inoltre, per quanto riguarda la dichiarazione fraudolenta, è la legge stessa a negare qualsiasi rilevanza alla forma più insidiosa di simulazione, quella delle operazioni “che hanno dato luogo a effettivi flussi finanziari annotati nelle scritture contabili obbligatorie”: ossia proprio quelle davvero capaci di avvalorare un falsa apparenza economica. Il falso divenuto “come vero”, per legge.
Qualcuno obietterà che la riforma prevede comunque la penalizzazione per le “operazioni simulate” idonee ad ostacolare l’accertamento degli uffici finanziari (art. 8 della delega), cui sarebbero riconducibili molte delle fattispecie opache in passato etichettate come ipotesi di abuso del diritto. Il punto centrale resterà allora la distinzione tra due forme irriducibilmente differenti della finalità di risparmio fiscale rispetto all’accertamento: quella trasparente ed espressa in termini anticipati e quella scoperta solo durante o all’esito di esso. Assimilare la seconda alla prima, qualunque cosa ne pensi il mutevole legislatore fiscale, equivarrebbe a parificare la furbizia alla lealtà: “come leale”, per legge. Il rischio è che si finisca per creare un’immensa area grigia, dove il lecito e l’illecito saranno difficilmente distinguibili, e che avrà conseguenze anche sul diritto societario. È davvero questo il modello di sviluppo economico che si desidera per l’Italia?
di Fabio Di Vizio e Nunzia Penelope
da il Fatto Quotidiano dell’11 febbraio 2015