Cultura

Massimo Fini, in un libro la carriera di un giornalista “per tutti o per nessuno”

Nella sua autobiografia "Una vita" l'editorialista del Fatto Quotidiano racconta gli episodi più significativi della sua lunga esperienza giornalistica, dalla lettera a Gianni Agnelli che il "Corriere" decise di non pubblicare alle tre domande che spaventarono Berlusconi, passando per l'incontro con Catherine Spaak

di Massimo Fini

Pubblichiamo alcuni stralci del saggio di Massimo Fini “Una vita – un libro per tutti o per nessuno”, appena uscito per Marsilio.

La mia vita, che qui racconto, ha attraversato questa terra di nessuno. Anche se ha qualche peculiarità (sono figlio di tre culture, italiana, russa, francese e ho fatto un mestiere, quello del giornalista, che mi ha permesso, forse, di avere un angolo di visuale privilegiato e più ravvicinato su certi protagonisti e su alcune situazioni, sociali, antropologiche e, in misura minore, politiche) non si differenzia da quelle degli uomini e delle donne delle generazioni che si sono susseguite nel dopoguerra”. (…)

La lettera ad Agnelli mai spedita da De Bortoli. Un giorno di dicembre del 1987 Ferruccio de Bortoli, capo delle pagine economiche del Corriere della Sera, mi telefonò: voleva propormi una serie di servizi e desiderava vedermi. Andai a trovarlo al giornale. Mi disse che sotto le feste aveva intenzione di pubblicare una serie di lettere di auguri di Natale ad alcuni dei più importanti imprenditori italiani. “Naturalmente mi spiegò la lettera dovrà essere un pretesto per fare dei ritratti polemici, dissacranti, come sai fare tu”. “Non hai bisogno di incoraggiarmi su questa strada”, dissi io, tetro. “Insomma voglio che tu scriva come sai, ti ho chiamato per questo”. Mi disse di buttar giù una lista di cinque, sei nomi e di portargliela. Io ci misi Ligresti, Lucchini, De Benedetti, Gardini e un altro di cui ora non ricordo il nome. De Bortoli approvò, ma sostituì Gardini con Gianni Agnelli. “Agnelli? Ma sei sicuro? – dissi io– È il padrone del Corriere…”. “Non ti preoccupare, io e Anselmi vogliamo dare una maggior aggressività alle pagine economiche e in una lista come questa Agnelli non puo mancare”. Poi mi porto da Anselmi che era condirettore (direttore era l’ultrasettantenne Ugo Stille, il mitico ‘ Misha’) e con lui mettemmo a punto gli ultimi dettagli.

Io che ero un po’ stupito di questi improvvisi coraggi che non erano mai appartenuti alla storia del Corriere chiesi timidamente ad Anselmi: “Ma Stille è d’accordo?”. “Il giornale lo gestisco io” rispose lui, gelido. La prima ‘lettera’ la mandai a Ligresti e non ci furono problemi, venne pubblicata con bella evidenza il 20 dicembre 1987. (…) La ‘lettera’ a Lucchini fu pubblicata il 22 dicembre. Quelle a De Benedetti e ad Agnelli avrebbero dovuto uscire nei due giorni successivi. Preparai il pezzo sul presidente dell’Olivetti e lo portai a De Bortoli (il fax non si usava ancora) poi me ne tornai a casa per scrivere quello su Agnelli. Mentre ero lì che battevo sui tasti, scervellandomi su come cavarmela senza scrivere un soffietto ma anche senza toccare nervi troppo scoperti, mi telefonò De Bortoli: la ‘lettera’ a De Benedetti era troppo hard. “Bisogna fare dei ritocchi, degli aggiustamenti, ammorbidire, smussare. Vieni domani mattina al giornale”. Ci andai portando, già che c’ero, anche il pezzo su Agnelli. Ferruccio mi segnalò i punti a suo dire scabrosi, mi indicò una scrivania e una macchina da scrivere e mi misi al lavoro. Quando finii consegnai il tutto a De Bortoli che lesse con molta attenzione, approvò e scrisse di suo pugno in testa al pezzo le indicazioni per mandarlo in tipografia. Ma prima lo fece vedere ad Anselmi. Che a sua volta lesse, rilesse e diede l’ok. “Però – disse – bisogna farlo vedere a Stille. E anche l’articolo su Agnelli”. Prese i due pezzi e sparì nella stanza del direttore del Corriere che era poco più in là. Ritornò dopo una ventina di minuti. “Stille dice che è troppo duro, che non è da Corriere, che bisogna aggiustare, ritoccare, ammorbidire, smussare”. “Se è così – risposi io – non facciamone nulla e non se ne parli più”. “No, no – disse spaventato Anselmi – abbiamo annunciato una serie, che figura ci facciamo? Gli deve essere saltata la mosca al naso, a Stille, prima o poi gli passa. Tu aspetta qui, tra poco ci torno e lo convinco”.

Da quel momento nei severi e austeri corridoi del Corriere, onusti di gloria e di prestigiosi fantasmi, in un’atmosfera ovattata, gallonata e quasi surreale, insomma in mezzo a quella paccottiglia retorica che tende a occultare che questo giornale è da sempre schierato col Potere, quale che sia, cominciò un penoso deambulare, un andirivieni sempre più frenetico e imbarazzante di Anselmi e De Bortoli e poi del solo Anselmi con la stanza che era stata di Albertini, ora occupata da Stille. Io guardavo e rabbrividivo. (…) La cosa durò quattro ore. Ritornando affranto dall’ennesima sosta nella stanza di Stille, Anselmi (che, come De Bortoli, è una bravissima persona, cosa rara in giornalismo dove i gaglioffi, oggi più di ieri, abbondano) mi disse, allargando le braccia: “Mi spiace, Stille in genere controlla un pezzo su quattrocento, purtroppo è toccato al tuo”. “Pazienza – risposi – sarà per un’altra volta”, sapendo che non ci sarebbe stata. Naturalmente della ‘serie’ sugli imprenditori non si parlò più né tantomeno del pezzo su Agnelli di cui però feci in tempo a vedere che avevano tagliato il passo sulle concentrazioni editoriali in cui la Fiat, allora più di oggi, era implicata in prima linea. (…)

L’alcol, la depressione e Catherine Spaak. Nel novembre 1981, a due anni circa dall’inizio della depressione, il direttore di Penthouse italiano, Gian Franco Vene, che voleva dare un po’ di spessore a quel giornale, mi chiese di fare un’intervista jusqu’au bout a Catherine Spaak. Per me prendere un aereo per Roma era ancora un grande sforzo. Incontrare la Spaak, che era stata un mito della mia generazione, aggravava le cose. Arrivai in via dell’Anima dove aveva una bellissima casa che, da un lato, dava su piazza Navona. Nei suoi 38 anni, con i biondi capelli raccolti da un nastrino rosso, era bellissima e affascinante, molto più dell’implume ragazzina che fa impazzire Ugo Tognazzi ne La voglia matta. Io mi sentivo svenire. Temevo di morire davanti a lei. L’ignominia assoluta. Catherine si accorse quasi subito che c’era qualcosa che non andava. “Non si sente bene?”. “Sì, non mi sento bene”, ebbi il coraggio di confessarle. Lei fu molto comprensiva, accuditiva, quasi materna, caratteristiche che, avendola conosciuta meglio in seguito, non direi che facessero proprio parte del suo carattere.

Era rigida. Incasellava ogni cosa in certe cellette del suo cervello, ben ordinate e separate come quelle dell’alveare di un apicultore. Questo bisogno d’ordine, quasi maniacale, si notava anche nella sua casa, non c’era incartamento, plico, mazzo di matite che non fosse accuratamente avvolto in un vezzoso nastrino, ognuno di diverso colore. Io la chiamavo ‘la tedesca’. A quell’età, non più ninfetta, aveva il fascino e l’eleganza di una donna della grande borghesia europea. Suo zio, Henry Spaak, era stato, con Adenauer e De Gasperi, uno dei padri dell’idea di un’Europa unita. In quel periodo si era messa a fare la giornalista e lavorava con impegno e diligenza per pochi soldi, lei ricchissima. “Venga, andiamo di là, in cucina, a farci un caffè”. Chiacchierammo per un po’ e poi, tornati in sala, facemmo l’intervista. Rientrato a Milano scrissi, di notte, l’articolo di 15 cartelle che mi era stato richiesto, cui Vene diede il titolo Catherine Spaak – Una donna dell’Europa borghese (Penthouse, novembre 1981). Quella confessione fu liberatoria. La depressione si affievolì fino a sparire del tutto. In seguito capii cosa era successo. Per vent’anni l’alcol mi aveva protetto come una seconda pelle. Dopo mi ritrovai come se al posto della pelle ci fosse la carne viva, allo scoperto. Nei due anni di depressione avevo dovuto ricostruire la mia personalità, senza la difesa dell’alcol. Giurai a me stesso che non avrei piu toccato una goccia di liquore. Ero stato troppo male. (…)

Le tre domandine che spaventarono B. Il terzo incontro con Silvio Berlusconi fu un non-incontro. C’erano le elezioni del 1996. Mi telefonò la direttrice di Annabella: “Vogliamo fare due interviste, una a Prodi e una a Berlusconi. Ma vogliamo che chi li intervista non sia un giornalista compiacente, ma che sia anzi un antagonista. Per Prodi abbiamo pensato a Giordano Bruno Guerri, quella a Berlusconi vorremmo che la facessi tu”. “Ma guarda che a me l’intervista non la dà”. “Figurati, siamo sotto elezioni e Berlusconi ha tutto l’interesse a parlare su un giornale ‘femminile’ come il nostro. Eppoi siamo già d’accordo. Devi solo telefonare all’ufficio stampa di Milano di Forza Italia”. Telefonai. L’accordo era che avrei fatto delle domande scritte cui Berlusconi avrebbe risposto e poi ci saremmo visti per un vis-à-vis di 45 minuti ad Arcore. Mandai le domande all’Ufficio Stampa di Milano che le trasmise a quello di Roma per un vaglio definitivo. Dovevo quindi telefonare a Roma.

Mi rispose Paolo Bonaiuti. “Ah, sei tu?” domandai un po’ sorpreso. Quando eravamo stati colleghi al Giorno negli anni Ottanta Bonaiuti era di sinistra, per lui io ero un mezzo fascista. “Ma qui ci sono delle domande…”. “Paolo, sono domande scritte, lui, o chi per lui, ha tutto il tempo di rifletterci sopra e di rispondere a tono”. “Ma ci sono queste domande sulla mafia…”. Avevo posto la questione più o meno in questi termini: “Lei dà molta importanza ai valori di lealtà e di fedeltà. Ma questi sono anche i valori omertosi della mafia. In che modo i suoi concetti di lealtà e fedeltà si differenziano da un legame mafioso?”. All’interno delle tre domande che vertevano su questo argomento davo naturalmente per scontato che per Berlusconi i valori di lealtà e di fedeltà fossero interpretati in modo molto diverso da quello dell’omertà mafiosa. Ma questo a Bonaiuti non bastava. “Non potresti togliere quelle tre domande? Eppoi ce ne sono anche un altro paio…”. “No”. “Fammici riflettere. Ne parlerò col Presidente. Ti richiamo io”. Non richiamò. Quell’intervista non si fece.

Mandai a Berlusconi un biglietto: “Egregio Cavaliere, io l’ho sempre criticata ma non le ho mai negato il coraggio. Vederla fuggire, come una lepre impaurita davanti a tre domandine scritte non mi pare degno di lei. Massimo Fini”. Il biglietto glielo avevo mandato brevi manu spedendo ad Arcore un fattorino dell’Indipendente. Dopo nemmeno tre ore suonano alla mia porta. È un gigantesco valet gallonato che mi consegna una lettera. È di Berlusconi che mi copre di insulti di ogni genere. Ma, come scrive Nietzsche, “anche la lettera più villana lo è meno del silenzio”. Anche questo, a suo modo, era un segno di attenzione. Che poteva importargli di una zanzara, sia pur molesta, quale ero io ai suoi occhi? Considero Silvio Berlusconi deleterio nella storia del nostro Paese, perché, col supporto dei suoi ‘ servi liberi’, ha contribuito a togliere agli italiani quel poco di senso della legalità, e oserei dire anche della dignità, che gli era restato.

da il Fatto Quotidiano del 15 febbraio 2015

Una vita. Un libro per tutti o per nessuno
di Massimo Fini
casa editrice “Marsilio”
2015
pp. 252
17 euro

Massimo Fini, in un libro la carriera di un giornalista “per tutti o per nessuno”
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