Ma andiamo con ordine, ricostruendo i fatti. I giudici di Palazzo Spada si sono pronunciati sul valore del tweet nell’ambito di un procedimento che riguardava il ricorso presentato originariamente dal Comune di La Spezia contro il Ministero per i Beni e le Attività Culturali a causa della decisione di quest’ultimo di sospendere i lavori nell’area di una delle piazze più importanti della città ligure (Piazza Verdi).
La richiesta di sospensione dei lavori, caldeggiata da alcune associazioni ambientaliste, era stata anticipata da un tweet postato il 15 giugno 2013 dall’account dell’allora Ministro per i Beni e le Attività Culturali, Massimo Bray.
Il Comune di La Spezia, nel ricorrere dinanzi al Tar Liguria contro la decisione del Ministero, non si limitava alla puntuale elencazione delle ragioni per cui la decisione sarebbe stata scorretta, ma lamentava anche che le dichiarazioni via tweet del Ministro avrebbero rappresentato “un’inammissibile usurpazione di funzioni amministrative” di esclusiva competenza dei dirigenti del MIBAC.
Il Tribunale amministrativo ligure – nella sentenza di primo grado – aveva dato ragione al Comune affermando che, nonostante il tweet non possa essere considerato come un vero e proprio atto amministrativo (direttamente annullabile), il “cinguettio” rappresentava “sicura spia dell’eccesso di potere”, nel senso che gli organi decentrati del Ministero si sarebbero decisi a sospendere i lavori – in contrasto con quanto avevano precedentemente affermato – non già sulla base di una approfondita valutazione di nuovi elementi relativi alla vicenda, ma “al fine di assecondare gli impegni ormai pubblicamente assunti dal Ministro”.
Non pago della sentenza del Tar Liguria, il Comune di La Spezia ha anche proposto appello, ribadendo che il tweet rappresentava proprio un atto amministrativo contenente la volontà di sospendere i lavori. Il Consiglio di Stato, con la sentenza del 12 febbraio, ha confermato che un messaggio su Twitter (e quindi, probabilmente, anche un post su Facebook) non possono essere considerati propriamente “atti amministrativi”, in quanto non hanno la forma tipica che le norme (scritte quando Twitter non esisteva) prevedono per gli atti della pubblica amministrazione.
Attenzione, però. In un contesto caratterizzato dal sempre maggiore utilizzo dei social network da parte di Ministri, Presidenti di Regione, Sindaci e Assessori, le sentenze relative al tweet di Bray contengono alcuni importanti insegnamenti.
Secondo la giurisprudenza, infatti, il semplice tweet di un politico (come quello di un qualunque amministratore) non è un provvedimento amministrativo, ma è in condizione di determinare l’illegittimità degli atti adottati dai rispettivi Enti.
Le conseguenze sono, a mio avviso, molto rilevanti. Specialmente se si tiene conto che – in molti casi – i post sui social network vengono scritti direttamente dai politici (o dal loro staff che si occupa della comunicazione), senza che vengano sempre consultati gli uffici competenti per i singoli procedimenti amministrativi (il caso di “Sucate” lo ricorderanno in molti, credo).
I social, si sa, richiedono risposte veloci che non sempre le strutture amministrative sono in condizione di assicurare. E questo rappresenta un rischio, anche dal punto di vista giuridico.
Ad essere punita, inoltre, potrebbe essere la vanità dei politici che, sempre più spesso, utilizzano i propri account e non quelli delle amministrazioni che rappresentano. A leggere attentamente le sentenze relative al “caso La Spezia”, sembrerebbe potersi affermare che lo stesso tweet se, invece di essere postato dall’account del Ministro, fosse stato effettuato da quello del MIBACT, non sarebbe stato censurato dal Giudice Amministrativo.
Politici dal tweet facile, siete avvisati: i vostri post possono finire davanti a un Tar.