Il ministro Gentiloni afferma che le forze armate italiane «sono pronte a combattere», ottenendone una parziale, blanda censura di Stefano Folli (La Repubblica del 16 febbraio 2015) secondo il quale l’espressione «non è politicamente corretta ma oggi è molto pertinente».
Galli Della Loggia (Il Corriere della sera del 16 febbraio 2015) intinge il pennino nel sangue per scrivere che «gli europei sono incapaci di pensare alla loro sicurezza innanzitutto perché sono ormai incapaci di pensare alla guerra. Di pensare concettualmente la guerra. Di convincersi cioè che quando in una situazione di crisi una delle due parti appare decisa per segni indubitabili a usare la violenza, c’è un solo modo di fermarla: minacciare di usare una violenza contraria. E quando è inevitabile, usarla».
Non solo, ma rispolvera l’antica sciagurata teoria della guerra come “levatrice della storia”, argomentando che «tutto questo è costato un enorme numero di morti. È vero. Ma un enorme numero di morti, per fare solo qualche esempio, sono costate anche le invasioni barbariche, le guerre di religione del Seicento, la battaglia di Stalingrado, per non parlare, che so, della colonizzazione dell’America in seguito alla scoperta del Nuovo mondo: si è trattato perciò di avvenimenti ‘inutili’? Ma via, che modo è mai questo di fare storia, assumendo come criterio chiave il numero dei morti?»
Echeggia il Giovanni Papini che all’inizio della Prima guerra mondiale sentenziava (Lacerba, 20 ottobre 1914): «Siamo troppi. La guerra è una operazione malthusiana. C’è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutar la vita».
Ma purtroppo, insiste Galli Della Loggia, la società europea è divenuta pericolosamente pacifista, ignara che la storia e la guerra sono la medesima cosa: «Il vuoto lasciato dalla storia è stato riempito dai principi. Unicamente i principi devono guidarci nell’arena del mondo: la giustizia, la libertà, l’eguaglianza, il diritto. Ma soprattutto la pace. Peccato che in quell’arena i principi, se non sono sostenuti dalle armi, possono voler dire una sola cosa: il compromesso a tutti i costi, il compromesso sempre e comunque. E alla fine – nella sostanza, anche se ogni sostanza può sempre essere mascherata – quasi sempre la resa».
E allora, si potrebbe concludere ancora con Papini: «Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne».
Temevamo il qualunquismo, ma un qualunquismo guerriero, che in tempi di crisi ne è il naturale epilogo, è ancora più spaventevole. Ed è proprio questo che noi europei dovremmo sapere bene.
Benedetto Croce (intervista al Corriere d’Italia 13 ottobre 1914) avrebbe osservato: «Considero tutto ciò come manifestazione dello stato di guerra».
Dunque, ci siamo? Proprio nel centenario dell’inizio di quella “inutile strage” denunciata da un papa oggi per questo irriso da un Galli Della Loggia?