Secondo l’ultimo rapporto sullo sviluppo umano delle Nazioni Unite, la ricetta anticrisi dell’Onu consiste, da parte dei Paesi e delle comunità locali, nella costruzione attiva della resilienza. Il termine “resilienza” ha diversi significati, e col passare del tempo ne assume di nuovi. In psicologia si riferisce alla “capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici” mentre in ecologia ed economia alla capacità di ecosistemi e organismi (o sistemi socio-economici) “di ripristinare l’omeostasi, ovvero la condizione di equilibrio a seguito di un intervento esterno”. Resilienza e sostenibilità vanno a braccetto ma non vanno confuse, il perseguimento della sostenibilità senza la costruzione della resilienza è del tutto inutile. In breve, la resilienza è la capacità di adattamento individuale e collettiva, il processo di trasformazione delle crisi in opportunità. Non a caso i Paesi più resilienti hanno saputo reagire meglio alla crisi finanziaria globale.

Sono numerosi gli studi che si riferiscono alla resilienza civile come fattore capace di preservare e accrescere la sicurezza nazionale. Per l’Onu lo sviluppo di comunità resilienti è dal 2005 un elemento fondante del programma di azione per la riduzione del rischio di calamità (Unisdr). Da allora il termine “disaster resilience”, è divenuto sempre più comune nei quadri di intervento umanitario dei paesi anglosassoni, indicando i processi di costruzione della resilienza volti a ridurre gli effetti di eventi catastrofici come crisi socio-economiche, conflitti etnici, inondazioni, epidemie o terrorismo. In seguito all’attentato della maratona di Boston, Obama ha infatti invocato la resilienza, un tema che è stato ripreso qualche settimana dopo dal governo canadese, quando all’indomani di un sventato attacco interno ha ribadito l’importanza di “costruire la resilienza contro il terrorismo” concetto presente nel suo Piano di difesa pubblica già dal 2011.

Manifestazione a Parigi Charlie Hebdo

Dopo i recenti attacchi a Charlie Hebdo e Copenaghen forse è ora che si inizi a parlarne seriamente anche in Europa, dove la resilienza non solo non è applicata ma non è neanche una parola di uso comune. Essa tenta di responsabilizzare le comunità locali e renderle maggiormente flessibili e attive nei processi decisionali. In un mondo sempre più complesso e in continuo cambiamento questa capacità di adattamento si rivela indispensabile. La disaster resilience cambia i paradigmi della sicurezza nazionale e decentralizza le sue infrastrutture, arginando il problema alla radice. Non si parte più dal presupposto di dover essere invulnerabili, ma dalla presa di consapevolezza che nessuno può essere immune al terrorismo e che bisogna prepararsi a comprendere e gestire le conseguenze del fenomeno, passando dalla sola predizione delle cause al contenimento delle vulnerabilità tramite pratiche di costruzione della cittadinanza attiva. In questo discorso anche le grandi città vengono concepite come formate da numerose comunità interne.

L’intento del terrorismo è proprio quello di destabilizzare le società colpite, di provocare un allarmismo che sfoci in scelte politiche ed economiche dannose attraverso la diffusione di un senso di insicurezza perpetua e sfiducia nel prossimo (in questo caso musulmani o immigrati), favorendo partiti estremisti che nel tentativo di accumulare consensi agiscano col pugno di ferro aggravando le tensioni sociali. Pratiche concrete di costruzione di resilienza civile riguardano le comunità sia psicologicamente che socialmente su di un piano analitico, strategico, operativo ed interpretativo. Esse comprendono innanzitutto l’istruzione alla comprensione e gestione delle cause e conseguenze del fenomeno non solo a livello nazionale ma anche individuale e comunitario. Ciò è possibile per esempio attraverso l’organizzazione di corsi specifici e simulazioni rivolti agli operatori della protezione civile e privati cittadini, oppure all’interno delle scuole, in cui la questione religiosa e politica del Medio Oriente debba essere affrontata da un punto di vista storico e filosofico e non esclusivamente eurocentrico e filo-cristiano come avviene.

Inoltre, il coinvolgimento delle minoranze a rischio e dei soggetti più vulnerabili nella costruzione di una cittadinanza attiva al fianco dell’integrazione e lo scambio culturale con gli stranieri, sono tra le azioni che maggiormente scoraggiano la sfiducia, l’allarmismo, le tensioni sociali e le possibilità di attacchi interni. Una società unità limita l’evoluzione di trame terroristiche, al contrario, l’esclusione sociale e la xenofobia sono tra le peggiori aggravanti, e paradossalmente sono proprio quelle che vengono fomentate politicamente in seguito agli attacchi. Tali misure sono in grado anche di creare consapevolezza in merito a questioni economiche come i meccanismi di finanziamento dei gruppi terroristici in patria. Per esempio, lo Zakat è una forma di contributo rituale che viene raccolto in tutte le comunità musulmane, un contributo che è teoricamente volto alla carità ma che spesso, all’insaputa dei praticanti, finisce per finanziare gruppi legati alla jihad.

I media svolgono anch’essi un ruolo fondamentale e dovrebbero essere capaci di educare al fenomeno anziché seminare il panico allo scopo di aumentare gli ascolti, come per esempio avviene in alcuni casi attraverso la diffusione di scene atroci o tramite la persistenza su determinati fatti di cronaca nera.

Non lasciamo che la paura ci porti ad odiare l’Islam e i musulmani, ad essere più chiusi con gli stranieri, a sentirci insicuri ovunque e quotidianamente, diffidando dei nostri fratelli. Non lasciamo che il terrore ci porti ad affidare il nostro futuro nelle mani di quei politicanti estremisti che stanno riesumando pericolose ideologie xenofobe, razziste e violente. Perché è questo quello che loro vogliono, è questo l’intento dei terroristi e delle fazioni politiche estremiste nostrane. Darci un pretesto per abbassarci al loro livello di ignoranza e farci sconfiggere dalla loro esperienza in merito.

di Gian Luca Atzori

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