La storica azienda di Rochester, dopo il crollo delle vendite, era decisa a passare definitivamente al digitale. Sei case di produzione hanno così acquistato gli impianti produttivi della società. Scorsese: "È la migliore maniera per conservare i film"
Il 2014 doveva essere l’anno che avrebbe segnato la morte della pellicola, quello in cui i film sarebbero stati girati e distribuiti solo in digitale. Le sale cinematografiche avrebbero dovuto modificare i loro dispositivi tecnologici, anche le più piccole dei più piccoli paesi. Si sarebbe detto basta al triacetato di cellulosa, alle cineprese, ai proiettori a pellicola. E così è stato, in parte.
Una dopo l’altra, le case di produzione e post produzione su supporto fisico hanno chiuso per lasciare spazio a telecamere in alta definizione, programmi, tecnologie e strumenti digitali. Già ad aprile del 2013, l’azienda giapponese Fujifilm aveva annunciato lo stop alla produzione di pellicole cinematografiche e, dopo i continui bilanci in rosso e il crollo delle vendite (96 per cento in meno dal 2006) anche la storica azienda Kodak Film di Rochester, a New York, sembrava destinata alla stessa scelta. Invece, nei giorni scorsi, sei tra le maggiori case di produzione cinematografica americane si sono unite per farla sopravvivere. Twentieth Century Fox, Paramount Pictures, Sony Pictures, Universal Pictures, Walt Disney Pictures e Warner Bros hanno firmato un accordo che prevede acquisti anticipati di pellicola Kodak così da mantenere ancora operativi (ma non si sa per quanto tempo) gli impianti di produzione della società.
Un incentivo con scadenza, certo, ma se si venderanno più pellicole, è possibile che su quelle pellicole si girerà di più. Non si tratta però solo di un intervento di solidarietà. Dietro c’è anche la predilezione per un certo tipo di fare cinema che resiste al più avanguardistico filtro. Per la gioia dei nostalgici e di chi ama l’immagine autentica del 35 mm. Basti pensare che il regista J.J. Abrams ha girato il settimo episodio di Star Wars su celluloide, che Christopher Nolan l’ha usata per Interstellar e che Boyhood, Grand Hotel Budapest e The Imitation Game siano stati girati su pellicola. Quentin Tarantino aveva già fatto notare che il formato digitale avrebbe rappresentato “la morte del cinema come lo conosco io” e lo aveva fatto qualche mese fa.
L’accordo, infatti, era nell’aria da luglio 2014, sostenuto proprio da una schiera di famosi registi di Hollywood tra cui Martin Scorsese che, in una lettera aperta pubblicata da la Stampa, aveva ricordato come la “pellicola, ancora oggi, offra una tavolozza visuale più ricca di quella dell’Hd, la migliore maniera per conservare i film, l’unica a prova di tempo”. E non è un caso che il premio Oscar Paolo Sorrentino abbia scelto proprio la pellicola in celluloide per girare La Grande Bellezza.
E chi pensa che l’analogico sia ormai una tendenza del passato, per i nostalgici delle immagini anche un po’ sgranate, della realtà immortalata non solo con i suoi difetti ma anche con quelli della macchina utilizzata, forse si sbaglia. Il presidente della Kodak Andrew Evenski ha infatti detto che è proprio quando si raggiunge “il punto in cui ti dicono che non c’è scelta, allora la questione diventa un problema creativo che deve essere portato all’attenzione della gente”. E così è stato.
C’era una volta in Italia, infatti, la Film Ferrania, nata nel 1923 e produttrice di pellicole per i grandi del cinema nostrani. Con migliaia di dipendenti, era un forte competitor di Fuji e Kodak fino alla chiusura nel 2006. Oggi c’è di nuovo ed è rinata grazie al web e a una campagna di crowdfunding su Kickstarter, la piattaforma che permette di farsi finanziare progetti da utenti da tutto il mondo, che le ha veicolato 300 mila dollari. L’obiettivo dei due promotori, Nicola Baldini e Marco Pagni, è duplice: salvare le apparecchiature storiche dalle fabbriche del savonese ormai in disuso e crearne una tutta nuova, in cui produrre, secondo quanto dichiarato nel progetto di Kickstarter, grandi quantità di pellicole “per altri 100 anni”. Per tutti e a costi sostenibili.
di Virginia Della Sala
Da il Fatto Quotidiano del 6 febbraio 2015