Le imprese coinvolte avevano sottoscritto contratti anche con la Guardia Forestale. A Fiumicino le etichette originali venivano tagliate, lasciando solo quelle con scritto "made in Italy". I responsabili si difendono: "Uniformi mai difettose"
Divise dell’Arma dei Carabinieri fabbricate in Cina. Per questo dodici persone, tra amministratori e gestori di aziende, sono sotto indagine per “associazione a delinquere allo scopo di frode in contratti pubblici”. Secondo quanto riportato da Il Messaggero la parte danneggiata è il ministero della Difesa, firmatario dei contratti con gli indagati. Contratti non rispettati dai fornitori, visto che in base al capitolato i capi di abbigliamento avrebbero dovuto essere prodotti in Italia.
La tecnica messa in atto dall’organizzazione era semplice. Le divise venivano prodotte a Pechino e all’arrivo a Fiumicino, nei locali della Esseci Logistica srl, bastavano un paio di forbici per tagliare l’etichetta “made in China” lasciando solo quella, più piccola, con su scritto “made in Italy“. Secondo la ricostruzione del pm di Roma Corrado Fasanelli le migliaia di capi contraffatti (129.150 divise da combattimento, 60mila berrettini e 5.170 uniformi ) venivano poi distribuite nel Sud Italia, specialmente a Palermo, da dove è partita l’inchiesta. “Il prodotto finale però – ha spiegato il pubblico ministero – non rispondeva alle specifiche tecniche concordate in sede di aggiudicazione”. Gli indagati hanno provato a difendersi sostenendo che in fondo le uniformi non risultavano “mai fallate“.
Al centro dell’indagine i fratelli i fratelli Carmelo e Piero Bucalo, che nel 2007 si sono aggiudicati dall’Arma la fornitura “di divise invernali e divise estive per il personale maschile” oltre a un megacontratto con l‘Ispettorato Generale del Corpo forestale, relativo a una partita di divise maschili e femminili, e una commessa relativa a 34.600 camice invernali con la Guardia di Finanza. Fasanelli, riporta il quotidiano romano, nella sua ricostruzione cita un’intercettazione telefonica tra il rappresentante di una delle imprese coinvolte e una dipendente, in cui vengono “nitidamente” documentate la rimozione delle etichette e il processo di produzione dei capi che, in casi di emergenza, venivano anche smistati in Slovenia e Bulgaria.
Un altro contratto tra gli indagati e il ministero della Difesa prevedeva tra l’altro 61mila uniformi da combattimento, 30mila berrettini, 65mila camicie color kaki, 2mila gonne estive, 3mila pantaloni e 1.500 soprabiti. Anche quelli, si suppone, fatti in Cina.