A volte la bellezza di una scrittura può anche fare male. E’ la vertigine della complessità? O è una questione di musica, lo sgomento che lasciano le parole quando raggiungono certe armonie? O sono le immagini evocate, così impreviste eppure così vere? La prosa stupenda di Maylis de Kerangal costringe a queste domande, specie quando si legge ‘Riparare i viventi’ (traduzione di Maria Baiocchi e Alessia Piovanello, Feltrinelli).
Tutto il romanzo è ambientato in 24 ore, in un reparto di rianimazione. Un adolescente, Simon Limbres, dopo un incidente entra in coma irreversibile e i medici devono convincere i genitori a donare i suoi organi.
La temperatura emotiva è altissima, non c’è un attimo di sollievo, brucia la storia e brucia ogni paragrafo. La morte è il più grande tabù contemporaneo, ma Maylis de Kerangal non fa sconti al tema. Riesce persino a raccontarla attraverso lo schermo di una risonanza, a descrivercela come «un rettangolo di 16 pollici irradiato di luce nera» o come una «macchia mobile dal contorno irregolare che opacizza una forma più chiara e più vasta, eccola, è lei».
Qui si affronta tutto, e lo scopo è proprio quello di «scavare insieme in quella zona fragile del linguaggio dove si dichiara la morte». Alla letteratura non interessa esorcizzare il dolore o addomesticarlo come nelle serie tv dove «per quanto il cadavere occupi tutto il campo visivo, soffocando lo schermo» resta «un simulacro», «una potenzialità narrativa, drammaturgica» che «tiene la morte a distanza». No, qui no. Qui il dolore viene vivisezionato.
Un esempio: quando la madre del ragazzo deve avvertire il padre al telefono, si rende conto che la voce di suo marito è «la voce della vita di prima», perché lui ancora non sa. L’abisso sta in questo tempo breve – «tre minuti, un uovo alla coque» – sta in questo dislivello fra due coscienze.
Il segreto dello sguardo profondo di questa autrice francese, che non ha paura di dare alle cose il loro nome – perché nulla è impronunciabile, la sfida è proprio questa: come i medici devono essere capaci di dichiarare la morte di qualcuno (e a volte anche di qualcuno che respira ancora), deve riuscirci uno scrittore – il segreto è l’uso del linguaggio scientifico. Che alla fine non è freddo come sembra, se modellato con umanità.
Il cuore di Simon non è solo un organo da espiantare, ha una vita anche nella memoria del corpo di sua madre (la memoria «riguarda tutto il corpo») quindi viene raccontato così: «il diciassettesimo giorno grappoli di cellule sanguigne confluiscono in un sacchetto per formare la rete vascolare iniziale, che comincia a pompare il ventunesimo giorno, il sangue scorre nei condotti in formazione, innervando tessuti, prendono forma le quattro cavità, tutto al posto giusto anche se incompleto il cinquantaseiesimo giorno». Un cuore nasce nella pancia di una donna e viene spostato nel petto di un’altra. Tutto quello che passa in mezzo è la morte, o la vita.