E’ stato messo in commercio un farmaco nuovo: Sovaldi, cura l’Epatite C. In realtà non la cura, la guarisce, nel 99% dei casi. Siccome si tratta di una malattia mortale (si “cura” con trapianto oppure non si cura) si può ben dire che far guarire la gente con due pillole al giorno è una scoperta rivoluzionaria. A questo tipo di medicine non si arriva con facilità: occorrono anni e anni di ricerca e milioni di euro. Così, quando il farmaco è pronto, costa un sacco di soldi; non solo perché si deve recuperare l’investimento: più la malattia è grave, più il business diventa proficuo. Quindi il Sovaldi, la cura completa, un mese e mezzo di pillole, costa 80 mila euro. Ci sono Paesi dove questo non è un problema: negli Usa chi può permettersi questa spesa guarisce, gli altri muoiono. Ma l’Italia è un Paese civile, c’è il Servizio Sanitario Nazionale; tutti hanno diritto a farsi curare nel modo migliore. E qui sono cominciati i guai.
In Italia i malati di Epatite C sono circa un milione. Il SSN ha spuntato (pare) con le imprese produttrici del Sovaldi un prezzo di 50 mila euro per la cura completa: fa 50 miliardi, un terzo dell’evasione fiscale annua. Ma, siccome non la combattiamo, da lì non arriva niente.
L’AIFA (Agenzia Italiana per il Farmaco) ha autorizzato l’uso della medicina; però soldi per comprarla non ce n’è. I malati vanno in ospedale, i medici gli spiegano che potrebbero guarire completamente ma che il farmaco non è disponibile perché gli ospedali non hanno ricevuto gli stanziamenti necessari. Quindi ognuno si arrangia come può. I ricchi vanno a comprarsi le medicine a Ginevra, Vaticano, San Marino, Oslo. Non in Italia perché, incomprensibilmente, l’AIFA ha classificato il Sovaldi “farmaco ospedaliero”, che significa che non si può comprare in farmacia. Con un po’ di lungimiranza si sarebbe potuto autorizzarne la libera vendita, alleggerire la domanda consentendone l’acquisto privato, permettere almeno ai fortunati di guarire. Sarà un po’ ingiusto ma così va il mondo. Alcune Regioni del Nord hanno anticipato un po’ di soldi. Non si sa da dove li hanno presi né quando li riceveranno dallo Stato e se potranno dunque ripianare il bilancio. Ma intanto qualcuno, i più gravi, viene curato; gli altri aspettano. Altre Regioni, ad esempio il Piemonte e molte Regioni del Sud, non hanno stanziato soldi, non hanno comunicato progetti né dato istruzioni; insomma “non ci sono; e – se ci sono – sto dormendo”.
Eppure almeno istruzioni sui criteri di priorità da seguire sarebbero opportune: è ovvio che alcuni di quelli messi in coda (sulla base di una scelta discrezionale del medico) forse non ce la faranno; i familiari non saranno contenti; e le denunce civili e penali fioccheranno. E poi alcuni medici danno una ricetta al malato: che sappia di potersi curare; anzi, che loro lo curerebbero ma la Regione non dà i soldi necessari. Altri la ricetta non la danno; tanto
– dicono – è inutile. Che non è proprio vero: la facessero, i malati potrebbero prendersela con la Regione, fare ricorso al Tar … Magari è per questo che non la fanno.
Infine questa potrebbe essere l’occasione virtuosa per risparmiare: il budget sanitario della Regione Piemonte se ne va, al 68%, per stipendi a personale amministrativo. Il che è ovvio: da sempre le ASL sono state il serbatoio di voti per i politici locali che, in cambio, facevano assumere chi li votava.
Insomma, per essere migliori degli Usa non bastano leggi più civili: occorre anche essere capaci di applicarle.
Il Fatto Quotidiano, 10 Febbraio 2015