Basta andare a Taranto e farsi una passeggiata lungo la ventina di chilometri degli invalicabili recinti dell’Ilva, con i suoi 1500 ettari – le dimensioni di una media città italiana – l’acciaieria più grande d’Europa. Chiunque capirebbe che i politici, burocrati e manager impegnati ogni giorno nelle concitate riunioni romane sul destino dell’azienda sono tessitori di un grande inganno. Basta guardare la gigantesca rete che Emilio Riva, il tycoon siderurgico morto l’anno scorso, fece issare attorno al parco minerali per proteggere il quartiere Tamburi dalle polveri cancerogene alzate dal vento. Può una rete fermare la polvere? “Sì, se il calibro della rete è inferiore a quello delle polveri”, spiega un autorevole ingegnere cercando di non ridere. Il calibro delle particelle pm10 è inferiore a dieci millesimi di millimetri: l’unico modo di proteggere il Tamburi sarebbe stato fare al parco minerali un cappottino di Goretex su misura. La taglia è 75 ettari.
A Taranto la rete per fermare la polvere è la misura di tutto. Può una popolazione sentirsi dire che la rete fermerà la polvere senza perdere il controllo dei nervi? Sì. La maggioranza dei tarantini da decenni tace e subisce la logica folle della storia. L’Ilva sta morendo e il governo, fingendo di curarla, ne accompagna distrattamente l’agonia. “Torno a Natale”, aveva detto Matteo Renzi a settembre, nel suo unico frettoloso passaggio, poi è andato a sciare a Courmayeur. La messa in scena ha un solo risultato possibile, un ingente passaggio di denaro dalle tasche dei contribuenti a quelle dei creditori dell’Ilva in dissesto finanziario, in primo luogo naturalmente le banche.
L’agonia clandestina, come in un racconto di Buzzati
Viene in mente Sette piani, il racconto di Dino Buzzati da cui Ugo Tognazzi trasse un celebre film, Il fischio al naso. Ricoverato per un banale controllo, l’industriale lombardo, accompagnato da sorrisi e frasi rassicuranti, parte dal piano terra e viene spostato gradualmente fino al settimo, dove morirà. Così l’Ilva da tre anni attraversa un incubo di piani di risanamento, decreti legge, commissariamenti e subcommissariamenti, e ogni volta qualcuno annuncia che è la volta buona. Intanto la fabbrica, formalmente sotto sequestro, cade letteralmente a pezzi. Al suo capezzale un plotone di medici pietosi: tre commissari governativi, tre custodi giudiziari, un custode amministrativo, un commissario per le bonifiche, e con loro Andrea Guerra, consigliere per l’industria di Renzi. Dovrebbero risolvere un’equazione impossibile: tenere in vita un’azienda che inquina, perde 30 milioni al mese, viene abbandonata dai clienti e ha 3 miliardi di debiti.
Tuttora Ilva premia con un buono acquisto da 100 euro all’Auchan gli operai dei reparti con un basso numero di “infortuni indennizzati”
Il 26 luglio 2012 intervenne la magistratura arrestando lo stato maggiore dell’Ilva, a cominciare dai Riva. La fabbrica fu messa sotto sequestro come si toglie la pistola dalle mani del serial killer, per impedire la prosecuzione del reato. Non fu uno sconsiderato blitz ecologista. Le indagini andavano avanti da anni. Da mesi il Noe di Lecce (Nucleo Operativo Ecologico), cioè i Carabinieri e non Greenpeace, rilevava quantità sconcertanti di veleni che l’acciaieria produceva con arrogante noncuranza. Era il Noe a chiedere al procuratore della Repubblica di Taranto, Franco Sebastio, urgenti “misure cautelari”. Sebastio aveva già ottenuto due volte dai giudici la condanna di Riva per inquinamento, nel 2002 e nel 2007. L’Ilva non è un paradiso. In vent’anni ha avuto 50 incidenti mortali in azienda. Tuttora premia con un buono acquisto da 100 euro all’Auchan gli operai dei reparti con un basso numero di “infortuni indennizzati”. E siccome è difficile credere che un operaio abbia bisogno dell’incentivo per stare attento a non rompersi un braccio, è possibile che quel premio incoraggi le mancate denunce.
Non lavorava in paradiso neppure Francesco Zaccaria, gruista volato in mare da 60 metri con la sua cabina nell’area Impianti Marittimi il 28 novembre 2012. Le Tv dettero la colpa alla tromba d’aria “assassina” che quel giorno travolse Taranto, ma al processone “Ambiente svenduto” sono imputati anche alcuni dirigenti accusati di omicidio colposo per la morte di Zaccaria.
Nell’estate 2012, furono però messe in scena la commedia della sorpresa e quindi la farsa dell’emergenza, condizione necessaria per il passo logicamente successivo: non fare niente. L’emergenza era costituita dai magistrati che “all’improvviso” dicevano basta al reato di inquinamento, flagrante e sfrontato. “Non si può uccidere così un’azienda decisiva per il Paese”, tuonavano gli industrialisti. “Bisogna salvare 17 mila posti di lavoro”, urlavano sindacalisti di ogni colore. I magistrati che avevano deciso il sequestro degli impianti inutilmente provarono a difendersi dall’accusa di seminare miseria: come arrendersi a quel malinteso senso di responsabilità secondo il quale, a fronte di una soddisfacente dose di prosperità economica, si può fissare una quantità accettabile di malattia e morte? Il partito industrialista allora guidato dal ministro dell’Ambiente Corrado Clini (in seguito arrestato per altro tipo di inquinamento, quello dei suoi conti in banca) sancì l’ovvio: lavoro e salute possono convivere. La traduzione pratica del sacrosanto principio è stata che si possono fare gli interventi di risanamento degli impianti compatibili con il conto economico. Cioè il poco o niente fatto da Riva dal 1995 al 2012. L’importante è sfornare a getto continuo piani, progetti, protocolli d’intesa, lettere d’intenti, appendici, atti aggiuntivi, note a margine. Se potessimo monetizzare ogni nuovo nome per pezzi di carta inutili, l’Italia non avrebbe debito pubblico.
Giovedì 12 febbraio, il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, imputato assieme ai Riva e ai loro presunti complici nel processo “Ambiente svenduto”, ha offerto alla città un saggio mirabile dell’arte dell’inerzia. Con il commissario alle bonifiche Vera Corbelli ha solennemente firmato un nuovo protocollo d’intesa che finalmente darà il via alle bonifiche. Non che mancasse un accordo tra commissario e Comune, ma Corbelli ha detto che quello firmato dal suo predecessore non funzionava. “Mi sono insediata lo scorso agosto e ho cominciato a comprendere la situazione di Taranto”, ha detto Corbelli che è forestiera. Molto determinata: “Il governo vuole investire, il premier Renzi l’ha detto: partiamo da Taranto”. Il sindaco, parimenti focalizzato sull’operatività, ha detto: “Basta con gli impegni, adesso passiamo ai fatti concreti”. Dopo tre anni, era ora.
Partono le bonifiche, in dosi omeopatiche
Ed ecco i fatti concreti. Dei 110 milioni stanziati tre anni fa dal governo per le bonifiche fuori del perimetro aziendale finalmente si spenderanno i primi due: bonifica delle aiuole del quartiere Tamburi, quelle da anni vietate al gioco dei bimbi. Su un totale di 3,6 ettari (lo 0,1 per cento della superficie da bonificare), verranno sostituiti con terra pulita i primi 30 centimetri di terreno. Un milione di metri cubi di terra inquinata, a 2 euro al metro cubo. Si può stimare che a Taranto uguale trattamento lo meritino un paio di miliardi di metri cubi di terra inquinata: fanno 4 miliardi di euro. A chi ha chiesto che senso abbia bonificare mentre l’Ilva continua a spargere i suoi veleni, i tecnici del Comune hanno risposto che tanto, per tornare all’inquinamento di oggi, ci vorrebbero 150 anni alle emissioni attuali: centocinquanta anni.
Su un totale di 3,6 ettari (lo 0,1 per cento della superficie da bonificare), verranno sostituiti con terra pulita i primi 30 centimetri di terreno
Taranto è dunque davvero avvelenata. Non dipende dai magistrati talebani il divieto di allevare le mitiche cozze del Mar Piccolo, che da secoli venivano squisite grazie a sorgenti sommerse di acque dolci. Adesso arrivano diossina, benzo(a)pirene e tutti gli altri veleni che hanno inquinato la falda acquifera. Neanche il divieto di pascolo per un raggio di 20 chilometri intorno all’Ilva è un’invenzione giustizialista. Due settimane fa, la Asl di Taranto ha trovato pieni di diossina i 64 bovini dell’allevatore Giuseppe Chiarelli, di Massafra, dieci chilometri dall’Ilva. Subito è partito l’ordine di abbattimento dei capi di bestiame, mentre il Pd di Massafra, ostentando sorpresa, ha chiesto l’immediata, drammatica convocazione del consiglio comunale.
Comunque si giri, il discorso non sta in piedi. Un mese fa il siderurgico di Cremona Giovanni Arvedi, in corsa per acquisire l’Ilva, in audizione al Senato, ha detto: “Taranto deve risolvere per primo il problema ambientale, bisogna coprire il parco minerali (un miliardo di euro, ndr) e installare l’aspirazione totale delle cokerie, che producono benzo(a)pirene e pm10. Bisogna rendere l’Ilva pulita e farla andare al massimo”. Il conto dei siderurgici esperti è presto fatto. Per rimettere in carreggiata l’Ilva occorrono da subito: 300 milioni per coprire le perdite dei prossimi 12 mesi, 500 per ricostituire le scorte, il cosiddetto capitale circolante, 300 per dare una sistemata a impianti abbandonati a se stessi che ormai producono acciaio scadente, e poi 200 milioni per rifare l’altoforno 5, un paio di miliardi per adeguare gli impianti alle prescrizioni dell’Aia (autorizzazione integrata ambientale).
I contribuenti pagheranno, le banche incasseranno
Siamo a 3,3 miliardi che servono alla Newco, cioè la nuova società statale che prenderà in affitto l’azienda. In più dovrà pagare l’affitto al commissario Piero Gnudi, che non avrà altri proventi per pagare i creditori dell’insolvenza da 3 miliardi. E quanto sarà il canone? Nessuno ne parla, perché è il tema più imbarazzante. Alcuni esperti sostengono che per un impianto che macina perdite al ritmo di 30 milioni al mese, l’affitto non può che essere simbolico. Però si tratta di una fabbrica che, costruita nuova, costerebbe 20 miliardi: il governo può sempre trovare una perizia che stimi l’equo affitto anche in 4-500 milioni. Denaro dei contribuenti che, senza ragione, verrebbe iniettato direttamente nelle casse dei creditori, in particolare le banche. Dei 3 miliardi di debiti dell’Ilva, infatti, 1,45 miliardi sono riferibili alle banche, di cui 900 milioni fanno capo a Intesa Sanpaolo.
Non c’è investimento pubblico in grado di ricomprare i clienti perduti
Se Guerra ripetesse il miracolo dell’acciaio di Stato riuscito nel Dopoguerra a Oscar Sinigaglia, tra tre o quattro anni potrebbe privatizzare l’Ilva risanata, ricavandone alcuni miliardi che andrebbero a Gnudi, cioè, di nuovo, ai creditori. I contribuenti non rivedrebbero più i soldi pubblici spesi per l’Ilva, ma l’azienda e i posti di lavoro sarebbero salvi. Purtroppo lo scenario più realistico è un altro. L’Ilva non si risolleverà perché non ha più manager capaci: per guidare la città dell’acciaio, con i suoi 11mila dipendenti diretti e i 5mila indiretti, ce ne vogliono tanti. Poi non c’è investimento pubblico in grado di ricomprare i clienti perduti. Lo stesso Arvedi rivela di non comprare più dall’Ilva le abituali 500mila tonnellate all’anno (sarebbero state il 10 per cento della produzione 2014) perché la qualità non è più all’altezza. Sarà difficile trovare acquirenti per una fabbrica sotto sequestro che continua a inquinare e per la quale non sono esclusi nuovi capitoli giudiziari, visto che i Carabinieri non smettono di rilevare superamenti dei limiti. I concorrenti non si strapperanno i capelli se chiuderà un produttore da 9 milioni di tonnellate, visto che l’Europa ha una sovracapacità produttiva di 30 milioni. Gli ambientalisti non si dispiaceranno se con l’Ilva chiuderà anche la fabbrica del veleno. Il governo potrà dire di aver fatto di tutto per salvare ambiente e posti di lavoro, e darà la colpa, nell’ordine: ai magistrati, agli ambientalisti, ai politici locali e ai sindacalisti. E tutti insieme, quelli che oggi fanno finta di non sentire, non capire e non vedere, ci spiegheranno, attorno al 2020, quali sono gli errori da non ripetere.
da il Fatto Quotidiano del 19 febbraio 2015
Lobby
Ilva, c’è un grande inganno dietro l’agonia dell’acciaieria di Taranto
Dopo tre anni di inquinamento, parte la bonifica dei terreni, ma a "dosi omeopatiche". Per salvare il polo siderurgico al governo servono almeno tre miliardi. Le (poche) certezze al momento sono due: in pochi credono che l'impianto abbia un futuro e i soldi dei contribuenti andranno alle banche
Basta andare a Taranto e farsi una passeggiata lungo la ventina di chilometri degli invalicabili recinti dell’Ilva, con i suoi 1500 ettari – le dimensioni di una media città italiana – l’acciaieria più grande d’Europa. Chiunque capirebbe che i politici, burocrati e manager impegnati ogni giorno nelle concitate riunioni romane sul destino dell’azienda sono tessitori di un grande inganno. Basta guardare la gigantesca rete che Emilio Riva, il tycoon siderurgico morto l’anno scorso, fece issare attorno al parco minerali per proteggere il quartiere Tamburi dalle polveri cancerogene alzate dal vento. Può una rete fermare la polvere? “Sì, se il calibro della rete è inferiore a quello delle polveri”, spiega un autorevole ingegnere cercando di non ridere. Il calibro delle particelle pm10 è inferiore a dieci millesimi di millimetri: l’unico modo di proteggere il Tamburi sarebbe stato fare al parco minerali un cappottino di Goretex su misura. La taglia è 75 ettari.
A Taranto la rete per fermare la polvere è la misura di tutto. Può una popolazione sentirsi dire che la rete fermerà la polvere senza perdere il controllo dei nervi? Sì. La maggioranza dei tarantini da decenni tace e subisce la logica folle della storia. L’Ilva sta morendo e il governo, fingendo di curarla, ne accompagna distrattamente l’agonia. “Torno a Natale”, aveva detto Matteo Renzi a settembre, nel suo unico frettoloso passaggio, poi è andato a sciare a Courmayeur. La messa in scena ha un solo risultato possibile, un ingente passaggio di denaro dalle tasche dei contribuenti a quelle dei creditori dell’Ilva in dissesto finanziario, in primo luogo naturalmente le banche.
L’agonia clandestina, come in un racconto di Buzzati
Viene in mente Sette piani, il racconto di Dino Buzzati da cui Ugo Tognazzi trasse un celebre film, Il fischio al naso. Ricoverato per un banale controllo, l’industriale lombardo, accompagnato da sorrisi e frasi rassicuranti, parte dal piano terra e viene spostato gradualmente fino al settimo, dove morirà. Così l’Ilva da tre anni attraversa un incubo di piani di risanamento, decreti legge, commissariamenti e subcommissariamenti, e ogni volta qualcuno annuncia che è la volta buona. Intanto la fabbrica, formalmente sotto sequestro, cade letteralmente a pezzi. Al suo capezzale un plotone di medici pietosi: tre commissari governativi, tre custodi giudiziari, un custode amministrativo, un commissario per le bonifiche, e con loro Andrea Guerra, consigliere per l’industria di Renzi. Dovrebbero risolvere un’equazione impossibile: tenere in vita un’azienda che inquina, perde 30 milioni al mese, viene abbandonata dai clienti e ha 3 miliardi di debiti.
Il 26 luglio 2012 intervenne la magistratura arrestando lo stato maggiore dell’Ilva, a cominciare dai Riva. La fabbrica fu messa sotto sequestro come si toglie la pistola dalle mani del serial killer, per impedire la prosecuzione del reato. Non fu uno sconsiderato blitz ecologista. Le indagini andavano avanti da anni. Da mesi il Noe di Lecce (Nucleo Operativo Ecologico), cioè i Carabinieri e non Greenpeace, rilevava quantità sconcertanti di veleni che l’acciaieria produceva con arrogante noncuranza. Era il Noe a chiedere al procuratore della Repubblica di Taranto, Franco Sebastio, urgenti “misure cautelari”. Sebastio aveva già ottenuto due volte dai giudici la condanna di Riva per inquinamento, nel 2002 e nel 2007. L’Ilva non è un paradiso. In vent’anni ha avuto 50 incidenti mortali in azienda. Tuttora premia con un buono acquisto da 100 euro all’Auchan gli operai dei reparti con un basso numero di “infortuni indennizzati”. E siccome è difficile credere che un operaio abbia bisogno dell’incentivo per stare attento a non rompersi un braccio, è possibile che quel premio incoraggi le mancate denunce.
Non lavorava in paradiso neppure Francesco Zaccaria, gruista volato in mare da 60 metri con la sua cabina nell’area Impianti Marittimi il 28 novembre 2012. Le Tv dettero la colpa alla tromba d’aria “assassina” che quel giorno travolse Taranto, ma al processone “Ambiente svenduto” sono imputati anche alcuni dirigenti accusati di omicidio colposo per la morte di Zaccaria.
Nell’estate 2012, furono però messe in scena la commedia della sorpresa e quindi la farsa dell’emergenza, condizione necessaria per il passo logicamente successivo: non fare niente. L’emergenza era costituita dai magistrati che “all’improvviso” dicevano basta al reato di inquinamento, flagrante e sfrontato. “Non si può uccidere così un’azienda decisiva per il Paese”, tuonavano gli industrialisti. “Bisogna salvare 17 mila posti di lavoro”, urlavano sindacalisti di ogni colore. I magistrati che avevano deciso il sequestro degli impianti inutilmente provarono a difendersi dall’accusa di seminare miseria: come arrendersi a quel malinteso senso di responsabilità secondo il quale, a fronte di una soddisfacente dose di prosperità economica, si può fissare una quantità accettabile di malattia e morte? Il partito industrialista allora guidato dal ministro dell’Ambiente Corrado Clini (in seguito arrestato per altro tipo di inquinamento, quello dei suoi conti in banca) sancì l’ovvio: lavoro e salute possono convivere. La traduzione pratica del sacrosanto principio è stata che si possono fare gli interventi di risanamento degli impianti compatibili con il conto economico. Cioè il poco o niente fatto da Riva dal 1995 al 2012. L’importante è sfornare a getto continuo piani, progetti, protocolli d’intesa, lettere d’intenti, appendici, atti aggiuntivi, note a margine. Se potessimo monetizzare ogni nuovo nome per pezzi di carta inutili, l’Italia non avrebbe debito pubblico.
Giovedì 12 febbraio, il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, imputato assieme ai Riva e ai loro presunti complici nel processo “Ambiente svenduto”, ha offerto alla città un saggio mirabile dell’arte dell’inerzia. Con il commissario alle bonifiche Vera Corbelli ha solennemente firmato un nuovo protocollo d’intesa che finalmente darà il via alle bonifiche. Non che mancasse un accordo tra commissario e Comune, ma Corbelli ha detto che quello firmato dal suo predecessore non funzionava. “Mi sono insediata lo scorso agosto e ho cominciato a comprendere la situazione di Taranto”, ha detto Corbelli che è forestiera. Molto determinata: “Il governo vuole investire, il premier Renzi l’ha detto: partiamo da Taranto”. Il sindaco, parimenti focalizzato sull’operatività, ha detto: “Basta con gli impegni, adesso passiamo ai fatti concreti”. Dopo tre anni, era ora.
Partono le bonifiche, in dosi omeopatiche
Ed ecco i fatti concreti. Dei 110 milioni stanziati tre anni fa dal governo per le bonifiche fuori del perimetro aziendale finalmente si spenderanno i primi due: bonifica delle aiuole del quartiere Tamburi, quelle da anni vietate al gioco dei bimbi. Su un totale di 3,6 ettari (lo 0,1 per cento della superficie da bonificare), verranno sostituiti con terra pulita i primi 30 centimetri di terreno. Un milione di metri cubi di terra inquinata, a 2 euro al metro cubo. Si può stimare che a Taranto uguale trattamento lo meritino un paio di miliardi di metri cubi di terra inquinata: fanno 4 miliardi di euro. A chi ha chiesto che senso abbia bonificare mentre l’Ilva continua a spargere i suoi veleni, i tecnici del Comune hanno risposto che tanto, per tornare all’inquinamento di oggi, ci vorrebbero 150 anni alle emissioni attuali: centocinquanta anni.
Taranto è dunque davvero avvelenata. Non dipende dai magistrati talebani il divieto di allevare le mitiche cozze del Mar Piccolo, che da secoli venivano squisite grazie a sorgenti sommerse di acque dolci. Adesso arrivano diossina, benzo(a)pirene e tutti gli altri veleni che hanno inquinato la falda acquifera. Neanche il divieto di pascolo per un raggio di 20 chilometri intorno all’Ilva è un’invenzione giustizialista. Due settimane fa, la Asl di Taranto ha trovato pieni di diossina i 64 bovini dell’allevatore Giuseppe Chiarelli, di Massafra, dieci chilometri dall’Ilva. Subito è partito l’ordine di abbattimento dei capi di bestiame, mentre il Pd di Massafra, ostentando sorpresa, ha chiesto l’immediata, drammatica convocazione del consiglio comunale.
Comunque si giri, il discorso non sta in piedi. Un mese fa il siderurgico di Cremona Giovanni Arvedi, in corsa per acquisire l’Ilva, in audizione al Senato, ha detto: “Taranto deve risolvere per primo il problema ambientale, bisogna coprire il parco minerali (un miliardo di euro, ndr) e installare l’aspirazione totale delle cokerie, che producono benzo(a)pirene e pm10. Bisogna rendere l’Ilva pulita e farla andare al massimo”. Il conto dei siderurgici esperti è presto fatto. Per rimettere in carreggiata l’Ilva occorrono da subito: 300 milioni per coprire le perdite dei prossimi 12 mesi, 500 per ricostituire le scorte, il cosiddetto capitale circolante, 300 per dare una sistemata a impianti abbandonati a se stessi che ormai producono acciaio scadente, e poi 200 milioni per rifare l’altoforno 5, un paio di miliardi per adeguare gli impianti alle prescrizioni dell’Aia (autorizzazione integrata ambientale).
I contribuenti pagheranno, le banche incasseranno
Siamo a 3,3 miliardi che servono alla Newco, cioè la nuova società statale che prenderà in affitto l’azienda. In più dovrà pagare l’affitto al commissario Piero Gnudi, che non avrà altri proventi per pagare i creditori dell’insolvenza da 3 miliardi. E quanto sarà il canone? Nessuno ne parla, perché è il tema più imbarazzante. Alcuni esperti sostengono che per un impianto che macina perdite al ritmo di 30 milioni al mese, l’affitto non può che essere simbolico. Però si tratta di una fabbrica che, costruita nuova, costerebbe 20 miliardi: il governo può sempre trovare una perizia che stimi l’equo affitto anche in 4-500 milioni. Denaro dei contribuenti che, senza ragione, verrebbe iniettato direttamente nelle casse dei creditori, in particolare le banche. Dei 3 miliardi di debiti dell’Ilva, infatti, 1,45 miliardi sono riferibili alle banche, di cui 900 milioni fanno capo a Intesa Sanpaolo.
Se Guerra ripetesse il miracolo dell’acciaio di Stato riuscito nel Dopoguerra a Oscar Sinigaglia, tra tre o quattro anni potrebbe privatizzare l’Ilva risanata, ricavandone alcuni miliardi che andrebbero a Gnudi, cioè, di nuovo, ai creditori. I contribuenti non rivedrebbero più i soldi pubblici spesi per l’Ilva, ma l’azienda e i posti di lavoro sarebbero salvi. Purtroppo lo scenario più realistico è un altro. L’Ilva non si risolleverà perché non ha più manager capaci: per guidare la città dell’acciaio, con i suoi 11mila dipendenti diretti e i 5mila indiretti, ce ne vogliono tanti. Poi non c’è investimento pubblico in grado di ricomprare i clienti perduti. Lo stesso Arvedi rivela di non comprare più dall’Ilva le abituali 500mila tonnellate all’anno (sarebbero state il 10 per cento della produzione 2014) perché la qualità non è più all’altezza. Sarà difficile trovare acquirenti per una fabbrica sotto sequestro che continua a inquinare e per la quale non sono esclusi nuovi capitoli giudiziari, visto che i Carabinieri non smettono di rilevare superamenti dei limiti. I concorrenti non si strapperanno i capelli se chiuderà un produttore da 9 milioni di tonnellate, visto che l’Europa ha una sovracapacità produttiva di 30 milioni. Gli ambientalisti non si dispiaceranno se con l’Ilva chiuderà anche la fabbrica del veleno. Il governo potrà dire di aver fatto di tutto per salvare ambiente e posti di lavoro, e darà la colpa, nell’ordine: ai magistrati, agli ambientalisti, ai politici locali e ai sindacalisti. E tutti insieme, quelli che oggi fanno finta di non sentire, non capire e non vedere, ci spiegheranno, attorno al 2020, quali sono gli errori da non ripetere.
da il Fatto Quotidiano del 19 febbraio 2015
Articolo Precedente
Mondadori, Franceschini: “Acquisto Rcs? Rischioso che azienda controlli mercato”
Articolo Successivo
Previdenza privata, “la sostenibilità delle casse diventerà problema nazionale”
Gentile lettore, la pubblicazione dei commenti è sospesa dalle 20 alle 9, i commenti per ogni articolo saranno chiusi dopo 72 ore, il massimo di caratteri consentito per ogni messaggio è di 1.500 e ogni utente può postare al massimo 150 commenti alla settimana. Abbiamo deciso di impostare questi limiti per migliorare la qualità del dibattito. È necessario attenersi Termini e Condizioni di utilizzo del sito (in particolare punti 3 e 5): evitare gli insulti, le accuse senza fondamento e mantenersi in tema con la discussione. I commenti saranno pubblicati dopo essere stati letti e approvati, ad eccezione di quelli pubblicati dagli utenti in white list (vedere il punto 3 della nostra policy). Infine non è consentito accedere al servizio tramite account multipli. Vi preghiamo di segnalare eventuali problemi tecnici al nostro supporto tecnico La Redazione
Mondo
Ucraina, Starmer e Macron propongono un mese di tregua. Von der Leyen: ‘L’Europa deve riarmarsi’. Meloni: ‘Trump-Zelensky? No alle inutili tifoserie’
Mondo
500 coloni assaltano la moschea di Al-Aqsa. Israele: “Hamas non firma il piano Witkoff, stop agli aiuti a Gaza”. Gli Usa d’accordo
Fatti quotidiani
Ultimi giorni per un anno di abbonamento al Fatto a un prezzo speciale. L’appello di Travaglio
Roma, 2 mar. (Adnkronos) - La capitale si prepara ad accogliere il ‘Resp Festival’, un evento innovativo che promette di trasformare Ariccia in un epicentro di suoni, luci e performance artistiche. Organizzato dal gruppo 06, il Festival si terrà presso il nuovo mega club ‘Factory46’, una struttura di 2.000 mq, (in Via Quarto Negroni 46, Ariccia), dotata di impianto audio all’avanguardia, giardino e zona food. L’evento si svolgerà dal 15 marzo per cinque sabati consecutivi, offrendo un’esperienza sensoriale unica, e rappresentando un nuovo capitolo nella scena della musica elettronica di Roma, portando con sé una ventata di innovazione e sperimentazione.
Il Resp Festival vanta un cartellone con 20 Dj internazionali e italiani, che si esibiranno ogni sabato dalle 23:00 alle 5:00, in un mix di performance dal vivo, spettacoli laser e led wall mozzafiato. Il primo sabato, 15 marzo, vedrà la partecipazione della star internazionale Pablo Say dalla Spagna, insieme alla talentuosa Debora Savasto e Katoff dall’Inghilterra. Tra gli altri protagonisti ci saranno Manuel Le Saux e Sygma, DJ e producer resident del festival. I tanti artisti porteranno sul palco una varietà di stili e influenze, creando un’esperienza sonora unica e coinvolgente.
“Siamo incredibilmente entusiasti di presentare il Resp Festival. Questo evento rappresenta un’opportunità unica per esplorare nuove frontiere della musica elettronica e delle arti visive. Miriamo a creare un’esperienza dinamica e coinvolgente per tutti i partecipanti. Abbiamo lavorato duramente per portare artisti di fama internazionale e talenti emergenti, creando un programma che celebra la diversità e l’innovazione. Non vediamo l’ora di condividere questa avventura con il nostro pubblico e di vedere come il Festival contribuirà a far crescere la scena culturale romana e non solo”, ha spiegato Sergio Serafini, organizzatore del Resp Festival e fondatore del gruppo 06.
Dopo l’inaugurazione del 15 marzo, si prosegue sabato 22 marzo con un evento misterioso e imperdibile, ‘Top Secret’. Poi sabato 29 marzo, si terrà una serata dedicata alle donne DJ, con la partecipazione di Alessandra Roncone, Las Mellizas, Francesca Fagiani, Kalhea e Consuelo. Sabato 5 aprile, sarà ‘La notte House of Vibe’ con il leggendario Joe T. Vannelli e Kristine.
Mentre sabato 12 aprile ci sarà il gran finale con la crew dell’Insomnia Discoacropoli d’Italia di Pisa, guidata dal fondatore Antonio Velasquez e DJ come Gabry Fasano, Alessandro Tognetti, Antonio Marki, Sandro Vibot e Riccardo Brush. Il Resp Festival non è solo un evento musicale, ma anche un’occasione per esplorare nuove forme di espressione artistica e per abbattere le barriere, connettendo presente e futuro, radici e prospettive. Inoltre il Festival si propone come un punto di incontro per artisti e pubblico, promuovendo la condivisione, il movimento e l’ascolto.
Il festival è accessibile con un unico biglietto Full Pass da € 69,90 per tutte le cinque serate, acquistabile online su Xceed. Non manca anche l’aspetto della solidarietà e della cultura. In collaborazione con Admo (Associazione Donatori Midollo Osseo), il Festival avrà anche una componente solidale, con l’obiettivo di sensibilizzare e promuovere il valore del dono del midollo osseo. Ogni serata vedrà anche la presentazione di libri da parte di giovani scrittori emergenti. Inoltre il festival sarà molto attento anche alla sicurezza e garantirà un’esperienza senza preoccupazioni, grazie ai servizi navetta gratuiti per raggiungere la location in totale tranquillità.
Milano, 2 mar. (Adnkronos) - Altra sconfitta per il Milan di Conceicao con una diretta concorrente per l'Europa. Dopo il ko con il Bologna nel recupero, i rossoneri escono sconfitti da San Siro anche con la Lazio, per 2-1 in una gara folle, decisa al 98' da un calcio di rigore realizzato da Pedro, dopo che Chukwueze aveva riportato in parità la sfida pareggiando il gol di Zaccagni, con i rossoneri in dieci uomini per l'espulsione di Pavlovic. I rossoneri scivolano così in nona posizione, superati anche dalla Roma, mentre la Lazio sale a 50 punti e si riprende la quarta posizione, ai anni della Juventus impegnata domani con il Verona, e si avvicina all'Atalanta terza a 55 punti.
Conceiçao per la sfida interna, con la Curva che è entrata a gara iniziata per protesta, conferma nove undicesimi della formazione scesa in campo dal 1' contro il Bologna. Inserisce Gabbia al posto di Thiaw al centro della difesa e Pulisic per Joao Felix nel tridente offensivo con Leao e Reijnders alle spalle di Gimenez. In mezzo al campo Musah e Fofana, sugli esterni Jimenez a destra con Theo Hernandez a sinistra. Baroni, invece, deve rinunciare a Castellanos e Romagnoli e in difesa schiera Gila con Gigot davanti a Provedel. Sugli esterni Marusic e Nuno Tavares, con Rovella e Guendouzi a centrocampo, mentre in avanti Tchaouna, con Dia, Isaksen e Zaccagni a supporto.
La Lazio parte subito forte e al 3' Rovella serve Dia che scatta sul filo del fuorigioco ma viene fermato da intervento prodigioso di Maignan. Un minuto dopo sul cross di Nuno Tavares dalla sinistra, svetta Dia di testa ma non inquadra la porta. Poi al 6' tocca a Nuno Tavares a rendersi pericoloso ma Pavlovic sbroglia. Al 12' Isaksen fa partire un violento sinistro dalla distanza, ma la palla sfiora il palo alla sinistra di Maignan. Il Milan reagisce nel momento in cui i tifosi rossoneri fanno il proprio ingresso in curva Sud ma non basta. Al 19' Leao viene pescato al limite dell'area laziale e imbuca per Reijnders, bravo nel centrare la porta in caduta ma non abbastanza da impensierire Provedel. La Lazio riprende ad offendere e al 28' passa: Tchaouna tocca per Marusic che impegna Maignan con il destro in diagonale, sulla respinta arriva Zaccagni che insacca in spaccata con il sinistro per l'1-0. Dopo la rete ospite, Conceiçao si gioca subito la carta Joao Felix per provare a dare la scossa decisiva, ma nel finale Zaccagni va vicinissimo al raddoppio con un destro al volo, fuori di un soffio.
A inizio ripresa il tecnico rossonero fa uscire Jiménez per mettere dentro Walker, ma la Lazio continua a rendersi pericolosa. Al 50' ennesima ripartenza con Nuno Tavares che serve Gigot al centro dell'area ma il difensore biancoceleste calcia debolmente e Maignan blocca. Al 51' Pulisic serve Joao Felix che sii gira e calcia di prima intenzione ma manda di poco sopra la traversa. La gara è aperta e la Lazio al 54' sfiora il bis con Zaccagni: Guendouzi serve il compagno che rientra sul destro e calcia a giro ma manda la palla fuori di pochissimo. Al 55' ancora Joao Felix protagonista, poi la palla arriva a Pulisic che non trova la porta da pochi passi.
Il Milan rischia, si sbilancia e la squadra di Baroni affonda ancora al 58' con Gila che in girata di sinistro spedisce il pallone sopra la traversa. La partita si complica ulteriormente per il Milan al 67': recupero di Guendouzi al limite della propria area e palla per Isaksen che scappa via a Pavlovic che lo stende e per l'arbitro Manganiello è rosso diretto per il giocatore serbo. Milan in dieci e sotto di un gol. Al 71' punizione tagliata di Nuno Tavares dalla sinistra, Maignan non ci arriva e Theo Hernandez rischia l'autorete, poi la difesa rossonera spazza via.
il Milan con le poche energie rimaste prova a raggiungere il pari che arriva un po' a sorpresa all'84' con Chukwueze che di testa trova l'angolino sul cross morbido di Leao sul secondo palo per l'1-1. I rososneri provano anche a vincerla ma la Lazio non ci sta e all'86' Dia serve Isaksen che controlla al limite e calcia in porta col destro, ma Maignan non si fa sorprendere e blocca. Finale concitato che si decide al 98' grazie a Pedro che realizza su calcio di rigore il gol vittoria del 2-1 dopo l'on field Review con Manganiello che assegna il penalty per il fallo di Maignan su Isaksen. Pedro glaciale spiazza il francese e stende il Milan, alla terza sconfitta consecutiva e in piena crisi con Conceicao sempre più in bilico.
Roma, 2 mar (Adnkronos) - "Il vertice di Londra di oggi ha dimostrato che la posizione assunta da Giorgia Meloni in questi giorni è ampiamente condivisa, da Starmer a Tusk a molti altri leader. Quando Giorgia Meloni dice che le due sponde dell’Atlantico non devono dividersi, questo è proprio uno dei messaggi forti che arrivano da Londra". Lo ha detto l’europarlamentare di Fratelli d’Italia- Ecr Carlo Fidanza, capo delegazione del partito a Bruxelles, intervenendo in studio a '4 di sera' su Rete 4.
"E’ importante la posizione espressa dal premier italiano per cui vanno tenuti uniti gli USA e l’Europa. Da 75 anni la Nato garantisce la sicurezza dell’Europa, quindi prima di ragionare di soluzioni anche un po’ avventuristiche fuori dalla cornice Nato, occorre fare ogni sforzo possibile, tenendo gli Usa dentro al tavolo della trattativa sull’Ucraina -ha aggiunto-. Senza la deterrenza militare della Nato, e quindi senza la presenza degli Usa, è impensabile dare reali garanzie di sicurezza all’Ucraina. Una sicurezza che l’Europa da sola non è in grado di garantire e che serve anche per evitare che la Russia faccia ciò che ha fatto con l’Ucraina con altri Stati europei”.
Roma, 2 mar. - (Adnkronos) - Appello per una giovane 26enne di origini siriane scomparsa da Latina ieri. Ayah Krdi, si legge su post dell'associazione Penelope Lazio (associazione nazionale delle famiglie e degli amici delle persone scomparse Odv), "si è allontanata da casa per recarsi alla casa di riposo Sasn Francesco di Latina. Era a piedi, con il cellulare. Potrebbe trovarsi presso stazioni di autobus o metro".
L'appello continua dando una descrizione della giovane: "è alta 1,64 mt, corporatura media, indossa un velo nero come copricapo, una giacca di colore nero e grigio, jeans, scarpe da ginnastica bianche ed ha una borsa nera. Potrebbe avere bisogno di aiuto", chiude l'appello dell'associazione pubblicando anche una foto della giovane.
Roma, 2 mar. - (Adnkronos) - L'ex comandante della Costa Concordia Francesco Schettino ha chiesto di poter accedere al regime di semilibertà. Nel 2017 era stato condannato in via definitiva a 16 anni di carcere per il naufragio della nave da crociera avvenuto nella notte tra il 12 e il 13 gennaio 2012 davanti all'isola del Giglio provocando 32 vittime e centinaia di feriti. Schettino ha maturato il termine che gli consente di accedere alle misure alternative al carcere avendo già scontato la metà della pena. L'udienza davanti al Tribunale di Sorveglianza di Roma si terrà martedì 4 marzo.
Schettino, recluso nel carcere romano di Rebibbia, beneficia attualmente di 45 giorni all'anno di permessi ottenuti grazie alla buona condotta mantenuta nel carcere romano. L'ex comandante della Costa Concordia tre anni fa aveva ottenuto la possibilità di lavorare in carcere e gli era stato affidato il compito di contribuire alla digitalizzazione dei documenti giudiziari della strage di Ustica e della strage di via Fani a Roma con il sequestro e l'omicidio dello statista democristiano Aldo Moro.
Una delle persone sopravvissute al naufragio, Vanessa Brolli, 27 anni, che era in vacanza sulla Costa Concordia con i fratelli, i genitori e altri parenti per festeggiare i 50 anni di matrimonio dei nonni, ha dichiarato una volta appreso la notizia: "Dispiace sapere che potrebbe tornare a casa. Schettino deve pagare per le sue colpe. A prescindere dalla decisione dei giudici siamo certi che Schettino vivrà il resto dei suoi giorni con addosso il peso di questa tragedia. Questa è la più grande pena per lui. Anche se dovesse uscire dal carcere, dovrà convivere con questa colpa per tutta la vita".
Roma, 2 mar (Adnkronos) - "Ursula Von der Leyen dice che è 'urgente riarmare l’Europa', Macron parla di 'invio di truppe' in Ucraina. Per la Lega invece è urgente lavorare per la Pace. L’Occidente intero ha il dovere di evitare a tutti i costi il rischio di una Terza Guerra Mondiale, bene fa il governo italiano a cercare di tenerlo unito e il presidente Trump, con responsabilità e pragmatismo, a spingere tutti in questa direzione". Lo scrive la Lega in un post sui social.
Roma, 2 mar. (Adnkronos) - "We stand with Ukraine! Continuiamo a sostenere con forza e decisione, a livello nazionale ed europeo, la resistenza del popolo ucraino. Continuiamo a lavorare per una pace giusta, sicura e duratura. Continuiamo a difendere la libertà, i diritti, la democrazia”. Lo ha scritto su X Piero De Luca, deputato e capogruppo Pd in commissione Politiche europee, che ha partecipato alla manifestazione a sostengo dell’Ucraina che si è tenuta a Roma.