Oltre ai due figli del patron, Emilio Riva, sono sei i vertici del polo siderurgico che dovranno rispondere dell'accusa di associazione a delinquere. Ma per la Procura il "governo ombra" dell'acciaieria agiva grazie agli appoggi istituzionali: dal sindaco Ippazio Stefano al governatore pugliese Vendola
Con la morte di Emilio Riva, avvenuta il 30 aprile dello scorso anno, nel procedimento penale contro l’Ilva di Taranto restano otto gli imputati principali: i figli del fondatore, Nicola e Fabio Riva, l’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso, l’ex responsabile delle relazioni istituzionali Girolamo Archinà, l’avvocato del gruppo Riva Franco Perli e i cinque fiduciari che componevano il cosiddetto “governo ombra” nella fabbrica: Lanfranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli, Agostino Pastorino ed Enrico Bessone. Per tutti l’accusa è di associazione a delinquere: per la Procura di Taranto, guidata da Franco Sebastio, l’organizzazione avrebbe agito per controllare “l’emissione di provvedimenti autorizzativi nei confronti dello stabilimento Ilva” e “consentire al predetto stabilimento la prosecuzione dell’attività produttiva”.
Dai vertici aziendali, quindi, partivano le manovre sotterranee per tutelare l’Ilva a danno di operai, cittadini e territorio. L’associazione a delinquere, quindi, per i pm si assicurava che le istituzioni locali e nazionali non emanassero provvedimenti che avrebbero limitato la quantità di acciaio prodotto o costretto l’azienda a spendere milioni e milioni di euro per adeguare gli impianti. Le conseguenze di questa politica aziendale sono spiegate nelle due maxi-perizie disposte dal gip Patrizia Todisco che hanno portato alla formulazione di reati gravissimi. Ai membri dell’associazione e ai responsabili della fabbrica, i vari direttori succeduti a Capogrosso e l’ex presidente del cda Ilva ed ex prefetto di Milano Bruno Ferrante, vengono contestati i reati di disastro ambientale, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro e avvelenamento di sostanze alimentari.
La continua emissione di sostanze nocive avvenuta con “piena consapevolezza”, cioè, avrebbe determinato un “gravissimo pericolo per la salute pubblica” causando “eventi di malattia e morte nella popolazione”, mettendo a rischio la salute dei lavoratori dell’Ilva e avvelenando i terreni su cui pascolavano greggi di pecore e le acque nelle quale si allevavano le cozze di Taranto. Nelle fascicolo dell’inchiesta sono finite anche le riprese effettuate dai carabinieri del Noe di Lecce che, guidati dal maggiore Nicola Candido, hanno filmato i fenomeni di slopping: le imponenti nubi rossastre che incontrollate fuoriuscivano dalle acciaierie.
Ma com’è stato possibile che i Riva potessero causare danni simili? Per la procura, come detto, i vertici della fabbrica hanno costituito una rete di appoggi che ha permesso di neutralizzare qualunque iniziativa sfavorevole ai padroni dell’acciaio. Ed è per questo che nel processo figurano anche tutti i livelli istituzionali: il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, accusato di omissione di atti d’ufficio, l’ex presidente della provincia, Gianni Florido, accusato di aver fatto pressioni sui dirigenti per concedere l’autorizzazione alle discariche Ilva (che infine è stata firmata addirittura dal governo dopo l’arresto di Florido), il governatore della Puglia, Nichi Vendola, che secondo i pm avrebbe fatto pressioni su Giorgio Assennato, direttore di Arpa Puglia e nemico giurato dello stabilimento, per ottenere una linea più favorevole all’azienda.
Nella richiesta di rinvio a giudizio formulata dagli inquirenti c’è anche l’avvocato Luigi Pelaggi, segretario della commissione ministeriale che ha concesso l’autorizzazione integrata ambientale all’Ilva nel 2011 e capo della segreteria tecnica di Stefania Prestigiacomo, ministro dell’ambiente nel governo Berlusconi che “incarico del ministro” telefona direttamente a Fabio Riva chiedendo e ottenendo una donazione alla Fondazione Liberamente, costituita nel 2010 dalla Prestigiacomo con gli altri ex ministri pidiellini, Mariastella Gelmini e Franco Frattini.
Amministratori, politici, ma anche consulenti della procura sono finiti nei guai. È il caso di Lorenzo Liberti, docente universitario incaricato dalla procura di indagare sulle emissioni Ilva, che secondo gli stessi magistrati il 26 marzo 2010 riceve da Archinà una busta con all’interno 10mila euro per “ammorbidire” la perizia.
In queste settimane le accuse del processo “Ambiente svenduto” sono esaminate nell’udienza preliminare davanti al gup Vilma Gilli che dovrà decidere sulle richieste di rinvio a giudizio.
da il Fatto Quotidiano del 19 febbraio 2015