Volendo provare a tracciare una mappa delle forze in campo coinvolte negli scontri in Libia, ci si accorgerebbe presto che il compito sarebbe quasi impossibile. Passati quattro anni dal 2011 e dalla caduta di Gheddafi, la situazione nel Paese è più complicata di prima: a una fase – rivelatasi breve ed illusoria – di ripresa, in cui la Libia stava dimostrando di avere i numeri e il potenziale per uscire dal periodo delle Primavere arabe e della dittatura anche meglio dei suoi vicini di casa (Tunisia ed Egitto), è seguito il periodo che, nel giro di un anno e mezzo, ha portato alla situazione odierna.
Sulla carta.
Sul terreno, invece, vi è un numero imprecisato di gruppi in azione e coinvolti negli scontri. La Libia, in questo momento, si presenta al mondo come una regione di fatto divisa in due su cui agiscono diversi gruppi di matrice islamica, più o meno radicale, in modo sparpagliato e non unitario, e un fronte dichiaratamente anti-islamista che fa capo al governo di Tobruk (dove si è spostato il Congresso generale nazionale nel 2014, dopo che gli assalti armati al parlamento erano diventati sempre più frequenti). A completare il quadro si aggiunge un caos istituzionale non indifferente: la Corte suprema libica, infatti, lo scorso novembre ha dichiarato nulli i risultati che hanno dato vita agli organismi politici in attività nell’est del Paese, riconosciuti invece a livello internazionale. Tra Tripoli e Tobruk, nella forma, abbiamo due governi, due parlamenti e due premier.
Tuttavia, la situazione non è riducibile alla dicotomia che i leader di una e dell’altra parte tentano di presentare agli occhi del mondo occidentale. Gli attori coinvolti, interni ed esterni, sono molteplici, e le alleanze si creano e disfano con estrema facilità: alle fazioni islamiche, al governo di Tobruk e alle milizie cittadine attive tra Zintan, Misurata e Bengasi, si aggiungono i Paesi che nel 2011 hanno combattuto Gheddafi, o che dalla sua caduta sono stati direttamente influenzati o toccati.
Qatar, Turchia ed Emirati Arabi, dopo aver collaborato con i rivoluzionari, hanno poi assunto una posizione ambigua sullo scacchiere strategico nella regione; l’Egitto, dal canto suo, dopo che l’esercito ha ripreso in mano il potere dagli islamisti, ha cominciato quella che da alcuni osservatori a livello internazionale è stata interpretata come una “caccia alla Fratellanza musulmana”, rivolta in questo caso contro la presenza islamica più radicale nelle regioni vicine ai suoi confini (leggasi “Libia”), col sostegno degli Emirati e, probabilmente, anche dell’Arabia Saudita.
I gruppi armati riconducibili all’Isis, in questo quadro di totale confusione nordafricana, provano a fare il terzo incomodo, nonostante siano pochi e praticamente contrastati da chiunque, a partire dai due governi di Tobruk e Tripoli. Gli estremisti in nero potrebbero provare a ritagliarsi uno spazio approfittando del vuoto istituzionale libico, ma è difficile che Haftar, le milizie di Misurata e gli egiziani glielo lascino fare.
Analizzati gli elementi che compongono un quadro a dir poco disordinato e di difficile interpretazione, il Consiglio di sicurezza dell’Onu, come Rasmussen all’epoca, spinge per una soluzione politica, almeno in questa fase. E fa bene. L’impressione, in fin dei conti, è che dovremmo darci una calmata: prendiamo seriamente gli avvertimenti, ma non sopravvalutiamoli. “L’Isis a sud di Roma” è più uno slogan che un dato di fatto, diretto più a mostrare i muscoli agli avversari (e non) di Al-Baghdadi in Medio Oriente che alle democrazie dell’Occidente.
La comunità internazionale, se necessario, potrà intervenire e risultare determinante ai fini del risultato, ma la partita libica è ancora nelle mani dei libici, ed è quanto più possibile lì che deve restare.