Nel 1876, per cercare di comprendere da vicino il retroterra politico elettorale di Francesco Crispi e per scongiurare i rischi di derive socialiste scatenate dalle umilianti condizioni di vita dei contadini, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, parlamentari liberali del nuovo regno unitario, si recarono privatamente in Sicilia per studiarne le condizioni politico-amministrative e la condizione sociale dei contadini.
Riporto, a beneficio di chi non conoscesse l’opera, peraltro introvabile, un significativo passo di Franchetti sulla borghesia palermitana, i cui appartenenti sono significativamente definiti come i “facinorosi della classe media”. Ciascun lettore, mi limito all’utilizzo del grassetto senza ulteriori commenti, potrà cogliere nell’analisi del 1876 la spiegazione profonda dei fatti di cronaca anche dei nostri giorni, quando la violenza e la prepotenza vengono attuate con le leggi più che con la lupara, nelle istituzioni e persino celandosi dietro i valori più sacri.
«Imperocché la città e l’agro palermitano ci presentano un fenomeno a prima vista incomprensibile e contrario alla esperienza generale e alle opinioni ricevute. Ivi l’industria delle violenze è per lo più in mano a persone della classe media. In generale questa classe è considerata come un elemento d’ordine e di sicurezza, specialmente dov’è numerosa, come lo è infatti in Palermo. Noi stessi abbiamo più sopra notato come il suo scarso numero in Sicilia fosse una delle principali cagioni della condizione dell’Isola. Questa contraddizione però è solamente apparente. Invero, quando la classe media non ha preso in un paese una preponderanza di numero e d’influenza tale da assicurare ad una legislazione uguale per tutti il sopravvento della potenza privata, l’osservanza delle leggi, la condotta regolare e pacifica non è più un mezzo di conservare le proprie sostanze e il proprio stato. Ora, la caratteristica essenziale che fa sì checodesta classe sia in generale un elemento d’ordine, è per l’appunto il timore che domina chi la compone di perder ciò che ha acquistato, e la ripugnanza di correr rischi per acquistare di più. Per modo che, quando per le condizioni sociali da un lato, per l’impotenza dell’autorità dell’altro, il rischio non è maggiore a usar violenza che a non usarla, cessa ogni cagione per i membri della classe media, di sostenere l’ordine. Anzi, per poco che abbiano intelligenza, energia e desiderio di migliorare il proprio stato (e in quella parte del territorio dove la classe media sarà più numerosa, saranno pure più numerose le probabilità che si trovino nel suo seno uomini dotati di siffatte qualità), niuna industria è per loro migliore di quella della violenza. Perchéportano nell’esercizio di questa tutte le doti che distinguono la loro classe, e, in altri paesi, la fanno prosperare nelle industrie pacifiche: l’ordine, la previdenza, la circospezione; oltre ad una educazione ed in conseguenza una sveltezza di mente superiore a quella del comune dei malfattori. Perciò l’industria delle violenze è, in Palermo e dintorni, venuta in mano di persone di questa classe. A quelle deve la sua organizzazione superiore; l’unità dei suoi concetti, la costanza dei suoi modi di agire, la profonda abilità colla quale sa voltare a suo profitto perfino le leggi e l’organizzazione governativa dirette contro il delitto; l’abile scelta delle persone, dalle quali conviene accettare la commissione d’intimidazioni o di delitti; la costanza colla quale osserva quelle regole di condotta, che sono necessarie alla sua esistenza anche nelle lotte che non di rado insorgono fra coloro i quali la praticano.
Tutti i cosiddetti capi mafia sono persone di condizione agiata. Sono sempre assicurati di trovare istrumenti sufficientemente numerosi a cagione della gran facilità al sangue della popolazione anche non infima di Palermo e dei dintorni. Del resto sono capaci di operare da sé gli omicidi. Ma in generale non hanno bisogno di farlo, giacché la loro intelligenza superiore, la loro profonda cognizione delle condizioni della industria ad ogni momento, lega intorno a loro, per la forza delle cose, i semplici esecutori di delitti e li fa loro docili istrumenti. I facinorosi della classe infima appartengono quasi tutti in diversi gradi e sotto diverse forme alla clientela dell’uno o dell’altro di questi capi mafia, e sono uniti a quelli in virtù di una reciprocanza di servigi, di cui il risultato finale riesce sempre a vantaggio del capo mafia. Il quale fa in quell’industria la parte del capitalista, dell’impresario e del direttore. Egli determina quell’unità nella direzione dei delitti, che dà alla mafia la sua apparenza di forza ineluttabile ed implacabile; regola la divisione del lavoro e delle funzioni, la disciplina fra gli operai di questa industria, disciplina indispensabile in questa come in ogni altra per ottenere abbondanza e costanza di guadagni. A lui spetta il giudicare dalle circostanze se convenga sospendere per un momento le violenze, oppure moltiplicarle e dar loro un carattere più feroce, e il regolarsi sulle condizioni del mercato per scegliere le operazioni da farsi, le persone da sfruttare, la forma di violenza da usarsi per ottenere meglio il fine. È proprio di lui quella finissima arte, che distingue quando convenga meglio uccidere addirittura la persona recalcitrante agli ordini della mafia, oppure farla scendere ad accordi con uno sfregio, coll’uccisione di animali o la distruzione di sostanze, od anche semplicemente con una schioppettata di ammonizione. Un’accozzaglia od anche un’associazione di assassini volgari della classe infima della società, non sarebbe capace di concepire siffatte delicatezze, e ricorrerebbe sempre semplicemente alla violenza brutale».