Economia

Petrolio, la strategia saudita sui prezzi fa crollare la produzione degli Usa

L’Opec prevede che, in seguito al forte calo dei prezzi, l'estrazione di greggio non convenzionale calerà di 170mila barili al giorno. E anche l'Agenzia internazionale dell'energia prefigura un'inversione di tendenza rispetto al 2014, quando Washington ha ottenuto lo scettro di maggior produttore. Ma tutto dipende dall'evoluzione delle quotazioni

Sembra stia funzionando la strategia dell’Arabia saudita di non ridurre la produzione di petrolio e tenere basse le sue quotazioni per mettere fuori mercato lo shale oil americano. Per lo meno stando agli ultimi dati dell’Opec e dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie). L’ultimo bollettino del cartello dei produttori prevede infatti che nel 2015 la domanda di greggio prodotto dall’organizzazione dei maggiori produttori sarà superiore di 430mila barili rispetto alle stime di gennaio. Di contro, vengono tagliate in maniera decisa le stime sulla produzione di greggio statunitense nel 2015, prevista ora a soli 13,64 milioni di barili al giorno contro i 13,81 di cui si parlava all’inizio dell’anno: -170mila barili al giorno in totale. La causa – sostiene il cartello – è “l’impatto del forte calo del prezzo del petrolio sulla produzione di shale oil”, l’estrazione del petrolio non convenzionale da frammenti di roccia. Questa tecnica rimane infatti vantaggiosa con le quotazioni del barile attorno ai 90-100 dollari, altrimenti diventa antieconomica.

Che l’Opec cerchi di tirare l’acqua al suo mulino mostrando che sta vincendo la concorrenza Usa è scontato. Tanto da poter pensare che si tratti di dati poco obiettivi. Tuttavia, in concomitanza sono uscite anche le previsioni dell’Aie, sicuramente meno di parte. Previsioni che sostengono la stessa cosa: il calo dei prezzi del petrolio ridurrà la produzione shale statunitense nella seconda metà dell’anno, rafforzando la domanda per il greggio del cartello dei produttori. In questo modo, inoltre, le quotazioni risaliranno. L’Aie ha quindi fatto sapere di aver tagliato le stime sull’offerta di greggio degli Stati Uniti di quest’anno di 200mila barili al giorno rispetto alle precedenti previsioni, quelle di dicembre, che erano di 12,68 milioni di barili. Dati che mostrerebbero dunque una inversione di tendenza rispetto al 2014, anno in cui gli Stati Uniti sono stati il primo produttore mondiale di greggio.

Immediata è stata tuttavia la risposta del governo americano. Per l’Energy Information Administration (Eia) la produzione Usa salirà dagli 8,6 milioni di barili al giorno del 2014 a 9,3 nel 2015 e 9,5 nel 2016. E questo a dispetto dei tagli agli investimenti, come quelli dell’australiana Bhp Billiton che ha annunciato la chiusura di circa il 40% degli impianti di trivellazione negli Usa.

A dire il vero fare pronostici in questo momento è impossibile e la partita è ancora tutta da giocare. Tutto dipende dalle quotazioni del prezzo del petrolio, le cui previsioni sono le più disparate: si va dai 20 dollari al barile di Citigroup ai 200 dollari al barile dell’Opec. In un sondaggio di Bloomberg, 12 analisti su 32 hanno predetto che i prezzi del petrolio scenderanno ancora nel breve periodo mentre 10 puntano su un aumento. E’ evidente che c’è eccessiva volatilità e che la situazione geopolitica ed economica è troppo instabile per capire come andrà il mercato. Ovvio è che nell’ipotesi dei 20 dollari di Citigroup la produzione shale cadrebbe a picco. Ma a quel punto ci sarebbe anche un effetto a catena devastante per una serie di altri Paesi. In primis per la Russia e il Venezuela, che già ora, con il greggio sui 50 dollari, sono sull’orlo del baratro.