Piena libertà di assegnare i propri dipendenti a mansioni di inquadramento inferiore. E anche ridurre gli stipendi, con accordi individuali. In più Andrea Lassandari, giuslavorista e docente all'Università di Bologna, spiega che il decreto prevede un "duplice declassamento": non solo in senso verticale, ma anche orizzontale
L’imprenditore avrà piena libertà di demansionare i propri dipendenti e ridurre gli stipendi con accordi individuali. E grazie a un decreto del 2011, il lavoratore, in deroga alla legge, potrà perdere anche più di un livello di inquadramento. Questi sono gli effetti del terzo decreto attuativo del Jobs act esaminato in via preliminare dal Consiglio dei ministri nell’analisi del professor Andrea Lassandari, docente di diritto del lavoro all’Università di Bologna, sede di Ravenna.
Innanzitutto, premette il giuslavorista, la norma è di portata generale, quindi si applicherà a tutti i lavoratori subordinati, con vecchi e nuovi contratti: si parla di milioni di persone. E anche in questo caso, come nel decreto sul contratto a tutele crescenti, si pone il problema dell’eventuale estensione delle norme al settore pubblico. “È una questione che andrà chiarita, ora è un punto di domanda – spiega il docente -. È vero che esiste una disciplina speciale per gli statali, ma per i rapporti contrattualizzati ciò che avviene nel privato può avere un impatto anche nel pubblico”.
Andando a esaminare il testo, il cuore della norma recita così: “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore“. “La modifica degli assetti organizzativi vuol dire tutto e niente – sottolinea il professore – È un presupposto che è tutto nelle mani dell’azienda. Il disegno complessivo del Jobs act è questo, al centro c’è il potere unilaterale dell’imprenditore“.
E se il decreto facilita il declassamento del lavoratore, al tempo stesso ne rallenta invece il passaggio a un livello più alto. “Prima l’assegnazione a una mansione superiore diventava definitiva dopo tre mesi di lavoro in quell’attività – spiega il giuslavorista -. Con il decreto, questo arco di tempo passerà da tre a sei mesi”.
Un altro passaggio importante del testo prevede che “possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione. Questo significa – spiega Lassandari – che il lavoratore può essere convinto o indotto ad accettare livelli inferiori di tutela, sul piano delle mansioni ma anche della retribuzione”. È vero, precisa il professore, che un’operazione del genere deve avere il consenso del dipendente e che si svolge in sedi dove il lavoratore non è lasciato da solo di fronte all’imprenditore. “Ma con il Jobs act – aggiunge – l’azienda può mettere il dipendente di fronte a un bivio, soprattutto nel caso dei neo assunti: o il lavoratore accetta le sue condizioni, che possono comprendere riduzione di mansione o di stipendio, o sarà licenziato con un indennizzo di poche mensilità”.
La questione del demansionamento si inserisce, secondo Lassandari, nel contesto di una pratica già attuale. Il riferimento è al decreto 138 del 2011, varato dal governo Berlusconi, secondo il quale i contratti aziendali e territoriali “operano anche in deroga alle disposizioni di legge” in materia di mansioni, orari di lavoro, assunzioni e licenziamenti, “ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro. In sede aziendale si può fare un diritto del lavoro à la carte, costruito a proprio piacimento – ragiona -. Il Jobs act può essere derogato in peggio. Se la legge parla di un solo livello di demansionamento possibile, il contratto aziendale può fissarli a due, per esempio. Un combinato catastrofico”.
Il decreto, secondo il professore, prevede inoltre un “duplice declassamento“, che potrà avvenire non solo in senso verticale, ma anche orizzontale. Il professore si riferisce a un semplice cambio di espressioni nell’articolo del codice civile modificato dal Jobs act. Il testo prevede che il lavoratore debba essere adibito a “mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”, mentre prima si parlava di “mansioni equivalenti“. Cosa cambia tra mansioni “equivalenti” e “dello stesso livello”? In apparenza nulla, ma in sostanza la differenza c’è. “Ora sarà possibile declassare un lavoratore mantenendolo all’interno dello stesso livello”, spiega il professore che, per chiarire la questione, ricorre a un esempio. Si pensi a un’impresa che produce biciclette e motociclette e a un operaio che per tanti anni si è occupato di bici. A un certo punto, l’azienda decide di dismettere il comparto moto e di spostare il dipendente proprio in quel settore, destinato al declino, pur tenendolo all’interno dello stesso livello. “Prima l’operaio aveva un futuro, la sua carriera era assicurata – spiega il docente – Con il passaggio alle moto, è collocato su un binario morto. Prima del Jobs act, questa operazione era un declassamento, ora non lo sarà più”.