Per Birdman si può solo parlare di trionfo. I quattro Oscar ricevuti (film, regia, sceneggiatura, fotografia) certificano che nella lunga notte del Dolby Theatre 2015 non c’è stata gara per nessuno. Inutile pensare che il prestigio di quattro statuette “minori” (Trucco, Costumi, Set design, colonna sonora) vinte da The Grand Budapest Hotel, o le tre vinte piuttosto a sorpresa da Whiplash (attore non protagonista, montaggio e missaggio suono) possano scalfire la netta predominanza del film di Iñarritu.
La scelta dei giurati dell’Academy di fortificare il premio al film con quello per il miglior regista, il premio per chi l’ha scritto e chi ne ha sistemato focali, otturatori e luci significa soprattutto che non si tratta di un exploit meramente estetico, ma che è il film nella sua interezza, nella sua multidimensionalità collettiva del farsi prima e durante il set, ad aver ottenuto un riconoscimento completo. Che questa organicità nel lavoro artistico della produzione Birdman i selezionatori e il direttore del Festival di Venezia, Alberto Barbera, l’avessero capito fin dall’inverno 2014, quando il film era ancora lontano dalla sua versione definitiva, è un altro dato di fatto che non può essere messo in secondo piano in questi Oscar 2015. Perché è il secondo anno consecutivo che il film che apre la Mostra di Venezia a settembre stravince agli Oscar dopo pochi mesi: toccò a Gravity di Alfonso Cuaron con 7 statuette nel 2014, tocca quest’anno a Birdman di Inarritu con la differenza che il secondo era in Concorso, e non ha vinto nulla (ma forse questo è un altro discorso…) mentre il primo era Fuori Concorso.
Altro dato veneziano da Oscar è nel vincitore del premio come miglior colonna sonora, quell’Alexandre Desplat che ha appena vinto la statuetta per The Grand Budapest Hotel: il grande maestro francese era il presidente di giuria sempre a Venezia 2014 ma nel film di Iñarritu sei mesi fa non aveva evidenziato nessun particolare dato rilevante tale da assegnarli un qualsiasi premio (e questo fa parte di quell’ “altro discorso” di cui sopra…). E nella notte degli Oscar in cui non si trovavano candidati afroamericani nemmeno a cercarli – il premio a Glory, il brano principale di Selma non cancella la pressoché totale assenza del film dalle nomination -, è stato il ritorno di Sean Penn sul palco del Dolby Theatre per premiare il miglior film a dettare un corso molto “politico” a questi Oscar 2015: quando lo storico contestatore liberal si è preso quei cinque sei secondi in più per aprire la busta e declamare Birdman vincitore, ha bofonchiato qualcosa come “Cos’è questa carta verde?”. Chiaro il riferimento alle origini messicane di Alejandro Gonzalez Iñarritu, come chiaro che il regista sul palco al quarto premio importante per il suo rischioso film si sia lasciato andare ad una dichiarazione che ha sfiorato la natia patria (“Speriamo che in Messico i miei connazionali possano costruire il governo che meritano”) ma che ha soprattutto ricordato gli immigrati messicani come lui in terra americana: “Spero vengano trattati come gli altri immigrati che hanno creato questa fantastica nazione”.
Se c’è un vincitore netto degli Oscar 2015 c’è almeno uno sconfitto altrettanto netto: Boyhood e la truppa di Richard Linklater che porta a casa una già prevista statuetta per Patricia Arquette come attrice non protagonista e niente più. Un nome su cui si era scommesso da mesi come quello per il collega nella categoria omologa maschile, J.K Simmons, e soprattutto per i due attori protagonisti: Eddie Redmayne e Julianne Moore. Per entrambi si tratta di interpretazioni di alto livello seppur basate su due personaggi malati, uno di Sla e l’altro di Alzheimer.
Questo dato performativo è oramai diventato un’incredibile, e inspiegabile, costante delle premiazioni degli Oscar negli ultimi decenni: come se la malattia fosse un elemento e una dimensione della recitazione più nobile della sensualità o dell’ironia. E se il look più ardito e sensuale lo vince probabilmente Scarlett Johansson in verde con collare punk e taglio rasato sulle tempie c’è ancora una dimenticanza dell’Academy che fa urlare vendetta. Una di quelle boutade per una volta provinciali all’incontrario: se nel 2014 la carrellata fotografica “In memoriam”, a dire il vero graficamente discutibile, aveva dimenticato Alain Resnais (prontamente reinserito quest’anno!) ecco che nel 2015 tra Virna Lisi, Anita Ekberg, Gordon Willis, Robin Williams, Lauren Bacall e mille altri defunti recenti – tra cui qualche sconosciuto truccatore degli anni cinquanta – manca il nome di Francesco Rosi, oltretutto nella cinquina tra i migliori film stranieri nel 1982 con il suo Tre fratelli. Attendiamo fiduciosi il reinserimento ultrapostumo nel 2016.