I giudici di terzo grado annullano tutti i risarcimenti: "Reato non oltre il 1986. Ma dovevano essere contestate lesioni e omicidi". Infine la "censura" del mancato adeguamento delle normative nonostante gli effetti dell'amianto fossero noti già dalla fine degli anni Settanta
Il processo per i morti di amianto era prescritto prima ancora di cominciare e l’accusa avrebbe dovuto contestare non il disastro ma l’omicidio e le lesioni. Senza contare che la politica si è dimostrata lentissima ad adeguare le normative, nonostante gli effetti dell’asbesto fossero noti non solo in sede scientifica, ma anche in sede di Comunità europea dalla fine degli anni Settanta.
Sono in sintesi gli elementi delle motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione che ha mandato assolto Stephan Schmidheiny, magnate svizzero di Eternit finché la società non è fallita nel 1986. dopo che la Corte d’appello lo aveva condannato a 18 anni di reclusione.
Il verdetto ha tra l’altro annullato i risarcimenti ai familiari delle vittime. In tutto le morti legate a patologie provocate dall’esposizione all’amianto nelle zone in cui operava Eternit (Casale Monferrato, Cavagnolo, Rubiera, Bagnoli) sono state circa 2mila.
“Tutto prescritto prima di cominciare”
Ad avviso della Cassazione “a far data dall’agosto dell’anno 1993” era ormai acclarato l’effetto nocivo delle polveri di amianto la cui lavorazione, in quell’anno, era stata “definitivamente inibita, con comando agli Enti pubblici di provvedere alla bonifica dei siti. E da tale data – si legge nelle motivazioni – a quella del rinvio a giudizio (2009) e della sentenza di primo grado (13/02/2012) sono passati ben oltre i 15 anni previsti” per “la maturazione della prescrizione in base alla legge 251 del 2005”. Tesi che era stata sostenuta anche dal procuratore generale della Cassazione Francesco Iacoviello che nella sua requisitoria aveva chiesto, appunto, di annullare la condanna. “La prescrizione non risponde a esigenze di giustizia ma ci sono momenti in cui diritto e giustizia vanno da parti opposte” aveva detto Iacoviello. Dunque “per effetto della constatazione della prescrizione del reato, intervenuta anteriormente alla sentenza di I grado”, cadono “tutte le questioni sostanziali concernenti gli interessi civili e il risarcimento dei danni” argomentano i giudici della Suprema corte.
“Confusa la permanenza del reato con quella degli effetti”
Non solo. Secondo i giudici di terzo grado l’imputazione di disastro contestata a Schmidheiny non era la più adatta da applicare per il rinvio a giudizio dal momento che la condanna massima sarebbe troppo bassa, per chi miete morti e malati, perché punita con 12 anni di reclusione. In pratica “colui che dolosamente provoca, con la condotta produttiva di disastro, plurimi omicidi, ovverosia, in sostanza, una strage” verrebbe punito con solo 12 anni di carcere e questo è “insostenibile dal punto di vista sistematico, oltre che contrario al buon senso”.
Gli ermellini ritengono dunque che il “Tribunale ha confuso la permanenza del reato con la permanenza degli effetti del reato, la Corte di Appello ha inopinatamente aggiunto all’evento costitutivo del disastro eventi rispetto ad esso estranei ed ulteriori, quali quelli delle malattie e delle morti, costitutivi semmai di differenti delitti di lesioni e di omicidio“.
Il procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello dopo la lettura del dispositivo della sentenza aveva detto: “Non bisogna demordere. Non è una assoluzione. Il reato c’è. E adesso possiamo aprire il capitolo degli omicidi”. Già nelle ore successive alla sentenza la stessa Cassazione, anche per via delle polemiche anche politiche, aveva precisato che il verdetto si era concentrato sul reato di disastro e non sulle morti. Proprio a fine novembre si è chiusa l’inchiesta bis questa volta per omicidio volontario sulla morte di 256 persone. Solo fra qualche mese si potrà capire se questa direzione porterà a una sentenza diversa.
“Reato non oltre il 1986”
Tornando alla prescrizione, dunque, per la Cassazione “la consumazione del reato di disastro non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri” d’amianto “prodotte dagli stabilimenti” gestiti da Schmidheiny e cioè “non oltre il mese di giugno dell’anno 1986, in cui venne dichiarato il fallimento delle società del gruppo”. Con il fallimento scrive la Cassazione “venne meno ogni potere gestorio riferibile all’imputato e al gruppo svizzero” e gli stabilimenti (Casale Monserrato e Cavagnolo in Piemonte, Bagnoli in Campania e Rubiera in Emilia, cessarono l’attività produttiva “che aveva determinato e completato per accumulo e progressivo incessante incremento la disastrosa contaminazione dell’ambiente lavorativo e del territorio circostante”.
Infine i giudici hanno respinto la tesi di alcuni avvocati di parte civile che ritenevano che Schmidheiny dovesse essere dichiarato responsabile per la mancata o incompleta bonifica dei siti produttivi. Spiegano gli ermellini che la fattispecie incriminatrice del reato di disastro “non reca traccia di tale obbligo, né esso, o altro obbligo analogo, può desumersi dall’ordinamento giuridico, specie se riportato al momento in cui lo stesso dovrebbe considerarsi sorto (1986)”.
Pesce (Associazione vittime): “Disastro ancora in essere”
La sentenza sull’Eternit “ha seguito una logica giuridica che andava bene 80 anni fa” sostiene Bruno Pesce, portavoce dell’Afeva, associazione che riunisce i parenti delle vittime dell’amianto di Casale Monferrato. “I giudici non hanno tenuto conto del fatto che il disastro è ancora in essere negli effetti e nelle cause. Questa sentenza è un atto di giustizia anacronistica”. Pur ammettendo che “la legge non è del tutto chiara in materia di disastri ambientali”, e che “per fatti come questo non dovrebbe esserci la prescrizione”, l’Afeva sostiene che “era doveroso prendere atto delle caratteristiche di questo disastro, che vede le cause, non gli effetti, ancora in essere. Siamo esterrefatti”.
I parenti delle vittime dell’amianto auspicano “che lo Stato si costituisca parte civile nel prossimo processo, visto che spende milioni per la bonifica dei siti. Per ora, infatti, ce la dobbiamo prendere con lo Stato e non con chi ha commesso il reato”. Sul capo di imputazione, infine, Afeva sta dalla parte del Raffaele Guariniello, pm dell’accusa nei primi due gradi del giudizio. “Con l’accusa di omicidio colposo – conclude Pesce – non ci sarebbe stata la fotografia esatta della situazione e si sarebbe evitato di affermare il principio che disastri di questo genere non devono più verificarsi. È un principio forse troppo importante per poter essere affermato… Siamo in un mondo che è ancora molto indietro”.