Sergio Bonetto, avvocato di molti familiari, dice la sua sulle motivazioni della sentenza con cui la Cassazione ha annullato la condanna a Stephan Schmidheiny: "Non si siamo accorti della prescrizione? I giudici hanno scorporato il pericolo dagli effetti. Sono rimasti attaccati al primo, mentre i secondi hanno luogo ancora oggi". Ora però "la procura ha chiesto il rinvio a giudizio del manager per omicidio volontario"
Nonostante i reati si fossero prescritti già prima dell’inizio del processo Eternit, c’è ancora un’indagine aperta su Stephan Schmidheiny per omicidio volontario continuato. Dalle motivazioni della sentenza con cui la Corte di Cassazione ha annullato la condanna al manager svizzero, sembra emergere un’accusa a chi non si è accorto prima della prescrizione e ora cerca di porre un rimedio. L’avvocato Sergio Bonetto, legale di molti familiari delle vittime, spiega cosa è successo.
Avvocato, è possibile che non vi siate accorti prima dei problemi sollevati dalla Cassazione?
“Il problema è di tipo interpretativo. L’articolo 434 del codice penale, il reato di disastro, è stato oggetto di varie letture. C’è chi sostiene che si compie dal momento in cui vengono tenuti i comportamenti e c’è chi dice che il reato può continuare a produrre degli effetti, come le morti che avverranno ancora nei prossimi giorni. I giudici della Cassazione hanno scorporato il “pericolo” dagli effetti. Sono rimasti attaccati al pericolo, che è prescritto, mentre gli effetti hanno luogo ancora oggi. Questa è una sentenza reazionaria: hanno scelto una lettura più “antica”, legata al codice penale del 1930, valido in una società che non conosceva i cancerogeni, che producono effetti a distanza di anni. Negli ultimi quindici anni invece le sentenze della Suprema Corte erano state diverse, più simili a quella della Corte d’appello di Torino”.
Perché avete tutti seguito questa via ritenuta sbagliata dalla Cassazione?
“Perché per noi è un fenomeno unitario. Sono strani “omicidi” questi, frutto di un’unica strategia. Quelli che producono l’amianto nel mondo sanno già che i loro dipendenti moriranno in una certa percentuale. Non sanno chi, ma sanno che accadrà”.
C’è qualcosa che voi parti civili vi rimproverate?
“Quello che potevamo fare e che abbiamo fatto è stato fare tutti gli esposti alla procura. Abbiamo portato tutte le prove e le informazioni, ma l’impostazione del processo non dipende da noi. Non vogliamo criticare la procura di Torino, come fanno adesso molti critici a posteriori. Se sono cambiate le situazioni negli ultimi venti anni in materia di ambiente e di lavoro è grazie a questi magistrati. È sbagliato additare il procuratore Raffaele Guariniello e gli altri magistrati torinesi come i responsabili del flop. Hanno avuto una lettura complessiva del fenomeno, diversa dalla Cassazione che invece vuole si valuti caso per caso. Questa è una maniera che non corrisponde a una realtà contemporanea”.
Perché non avete fatto una causa civile?
“Perché in Italia non esiste la class action. Avremmo potuto promuovere tante cause individuali con l’onere della prova a carico del lavoratore e della vittima, tutte cause civili della durata di una decina di anni. La nostra idea è stata quella di vedere se c’era il reato e poi eventualmente fare le cause partendo da questo accertamento”.
Potete farlo adesso?
“Ora valuteremo le motivazioni della sentenza. Teoricamente potremmo farlo, con il solito problema dell’onere della prova”.
Dal punto di vista dell’indagine penale c’è l’inchiesta per gli omicidi. Cosa può accadere adesso?
“La procura ha chiesto il rinvio a giudizio di Schmidheiny per omicidio volontario. C’è un problema che resta aperto: la gente continua a morire. Non possiamo fare finta che tutti questi casi non ci siano”.
Dovrete dimostrare di nuovo la responsabilità dell’Eternit e la sua consapevolezza che l’amianto fosse cancerogeno?
“Nel testo depositato dai magistrati non vengono accertate le cause che hanno portato ai mesoteliomi e alle morti. Si spiega soprattutto la questione sulla prescrizione del reato di disastro. Sono scomparsi gli accertamenti dei fatti e quindi si dovranno dimostrare di nuovo le responsabilità dell’azienda”.
Non è che ora si rischia di annullare il tutto per il principio del “ne bis in idem”, secondo il quale una persona non può essere processata più volte per lo stesso fatto?
“La questione richiede uno studio attento, anche se la sentenza che annulla per la prescrizione potrebbe annullare il problema: è come se non fosse stato accertato nulla. Secondo me se non ci sono gli accertamenti non c’è il ne bis in idem“.