Erano bianchi, non erano neri. Erano candidi nel lembo di cielo azzurro oltremare verso levante, mentre a ponente si levava la scia ocra dell’ultimo sbaffo di tramonto. Non erano neri com’esuli pensieri, ma pallidi come una visione apache, purtuttavia, senza alcun dubbio nel vespero migrar. Erano cento, duecento? Sta il cacciator fischiando sull’uscio a rimirar. Non caccio, ma rimiro. Poco discosto dall’uscio, un passo oltre il cancello, con un sacco di mangime per l’oca che se ne sta a berciare di chissà quale lamentela nel suo laghetto inamidato dalla ghiacciata.
Non fanno rumore, sono alti lassù come aeroplani, alzo gli occhi al cielo e ce li trovo lì in mezzo. Formazione a dardo, perfetta, come nei filmetti di Discovery Channel. Volano, volano, beati e speranzosi, incoscienti e costanti, stolidi e perfetti. Che uccelli mai saranno? E chi lo sa? E chi se ne frega? Qui non si è cacciatori e nemmeno guardoni di uccelli.
Mi sarebbe solo piaciuto che fossero oche selvagge in rotta fuori dall’avito seminato, in viaggio dalle isole Orcadi, o forse dalle Lofoten, verso il niente. Oche selvagge perdute nei cieli, destinate ad atterraggi fortunosi in terre sconosciute dai loro progenitori. Nate per viver come bruti e arrivate alla coscienza che è bello così, andare altrove e basta, che tanto qui chi s’è visto s’è visto, e l’Europa non promette niente di buono, e l’euro è quello che è. Mi piacerebbe. Mentre torno a caricarmi il sacco del mangime per quella bestia del laghetto che mi chiede i sussidi dovuti alla cattività.