Le popolazioni barbariche e gli imperi romano e sassanide sono le fazioni di un titolo che segue i canoni della serie, distinguendosi per una densissima offerta ludica, che innova con nuovi elementi di gioco
Alla morte di Attila, avvenuta nel 453 d.C., secondo le leggende per gli eccessi di un banchetto, il suo impero si estendeva dall’Europa Centrale al Mar Caspio, e dal fiume Danubio al Mar Baltico. Le sue conquiste non gli sopravvissero, litigate tra i suoi figli, messe in pericolo dai barbari, fino alla battaglia del fiume Nedao, che di fatto segnò la fine dell’impero unno. Lo storico condottiero, la sua fazione ma anche i popoli barbari sono i protagonisti di Total War: Attila, ultimo episodio della prolifica serie strategica di The Creative Assembly.
Total War ha da sempre avuto il suo fondante nella complessità della guerra. Che non è solo l’atto della battaglia, o il solo guerreggiare tra fazioni che si affrontano in campo aperto. La guerra è molto di più, è l’ottenimento delle risorse necessarie per sviluppare i propri insediamenti ed il proprio esercito, è tenere ben saldo il proprio comando tramite politiche, intrighi, matrimoni, è allearsi, commerciare e, ovviamente, combattere con gli altri popoli. Ad ogni episodio, la serie si fa più ricca di dettagli, aggiunge elementi di gioco, arrivando al punto da lasciarsi nettamente preferire nella sua parte più squisitamente strategica e gestionale che in quella in tempo reale, quando il giocatore, dalla mappa dei territori, con città da gestire, eserciti da posizionare, confini da controllare, passa al controllo attivo delle truppe impegnate in battaglia. Sia chiaro, anche in questa sua componente si vedono la familiarità e l’esperienza del team con il genere, ma le dinamiche degli scontri offrono molto meno spunti rispetto alla ricca costruzione dell’impianto ludico dell’altra parte.
Leggenda vuole che dove passasse Attila non crescesse più l’erba, e probabilmente con questa storia in mente gli sviluppatori hanno concepito l’elemento di maggiore novità all’interno di un titolo che nella sua struttura altrimenti avrebbe replicato l’impronta dei suoi predecessori. Controllare gli unni significa non avere accesso agli insediamenti, ovvero essere costretti a sostentarsi razziando e combattendo costantemente, dando forma videoludica alla sua orda. La campagna degli unni è un conflitto costante, mentre nei panni dei popoli barbari si trova una via di mezzo, tramite l’espediente della grande migrazione. Si può decidere di fare terra bruciata dei propri possedimenti, di raccogliere le proprie risorse e cercare fortuna altrove, soprattutto quando le intemperie e la minaccia di altre popolazioni premono forte. Per uno stile di gioco più nella tradizione della serie, basta scegliere l’Impero romano d’Oriente, l’Impero romano di Occidente o quello Sassanide.
Total War: Attila offre quindi sia quantità che qualità, in dosi che non possono scontentare l’appassionato del genere. Le possibilità di azione del giocatore sono numerose e ramificate, al punto che ci si potrebbe persino ritrovare sopraffatti da tanti compiti (ma per fortuna è possibile aiutarsi con i suggerimenti, disattivabili a piacimento); la solidità dell’esperienza di gioco è indiscutibile, e le innovazioni di questo capitolo concedono anche al giocatore esperto della serie di sperimentare approcci totalmente nuovi. La completezza della produzione è testimoniata da un comparto tecnico di buon livello, nella grafica così come nella colonna sonora e negli effetti.
The Creative Assembly dimostra ancora la sua maestria nel genere, riuscendo inoltre a dotare il gioco di elementi che lo distinguono dagli altri titoli della serie, ed inanella un altro successo, dopo quello di Alien: Isolation, di tutt’altri canone ed ispirazione. Voci dicono che la prossima iterazione della saga Total War potrebbe abbandonare il background storico a favore di quello fantasy, con un titolo ambientato nel mondo di Warhammer, dall’immaginario ricchissimo e dettagliato; se qualcuno può ben riprodurlo in chiave videoludica, quello è il team inglese.
A cura di Fabio Canonico