Il procuratore capo di Bologna e numero uno della Direzione distrettuale antimafia ai giornalisti: "La malattia è grave, il tumore c'è e bisogna curarlo, non si può stare in attesa"
“Le istituzioni dell’Emilia Romagna devono darsi una mossa: la malattia è grave, il tumore c’è e bisogna curarlo, non si può stare in attesa”. Raramente Roberto Alfonso, procuratore capo di Bologna e numero uno della Direzione distrettuale antimafia ha parlato così a lungo con i giornalisti. La sua attenzione è per la terra dove da anni lavora e ora non più immune dagli scandali della politica e della pubblica amministrazione, come ha dimostrato l’inchiesta con 41 consiglieri regionali indagati per le spese pazze. E soprattutto una terra ormai afflitta dal cancro della mafia: 117 arresti solo lo scorso 28 gennaio, in una inchiesta che ha smantellato una rete di ‘ndrangheta che, secondo i pm bolognesi, sarebbe radicata e ramificata da Piacenza a Bologna. “L’Emilia Romagna è una regione che si riteneva esente dai mali che affliggevano le altre, questa immunità invece non ce l’ha”, ha spiegato il pm. Il messaggio alla politica è esplicito: “Questa terra deve prendere atto della sua reale situazione e poi ognuno deve assumere le responsabilità proprie del ruolo e fare quello che la legge impone di fare. Io cerco di fare al meglio il mio, gli altri facciano il loro”. Poi Alfonso ha rimarcato: “Non si può non dire e non si può non sottolineare”. Alfonso ha poi ricordato l’incontro con la commissione parlamentare antimafia, arrivata sulla via Emilia in seguito ai 117 arresti dell’inchiesta Aemilia: “In quella sede abbiamo detto tutto, non abbiamo risparmiato nulla. È il massimo organo che deve verificare esistenza questi fenomeni e ha anche poteri propositivi, deve sapere come stanno le cose”.
Alfonso ha poi commentato la relazione annuale della Direzione nazionale antimafia, che ha dedicato ampio spazio alla vicenda della ‘ndrangheta bolognese. E in particolare il passaggio della relazione dove si dice che gli arresti da soli non sono sufficienti a ‘guarire’ dai danni provocati dalla criminalità organizzata, e che servirebbe una “terapia di legalità”, ha trovato d’accordo il procuratore. “È un messaggio a tutti. La collettività non deve sentirsi non destinataria o esclusa. È un invito a prendere consapevolezza e ad adottare provvedimenti, comportamenti, condotte e prassi positive per cercare di arginare tutti insieme il fenomeno”.
Per il capo dei pm bolognesi – siciliano, un passato proprio alla Direzione nazionale antimafia e una elezione a procuratore nazionale sfiorata per un soffio nel 2014 – in Emilia è stato grave ritenere che la mafia non ci fosse. A suo parere ciò è stato dovuto “alla mancanza di fatti delittuosi con violenza alle persone, per lo meno nella parte emiliana”. Alfonso ha fatto infatti una distinzione: “In Romagna ci sono state estorsioni di stampo mafioso con una violenza inaudita, come abbiamo già verificato”. In Emilia invece si pensava che “più facilmente arrivavano i soldi, meglio era. Invece non era così, era un segnale che andava preso. Il cavallo di Troia sono stati i soldi, c’è poco da fare”.
Intanto il lavoro per la maxi-inchiesta sulla ’ndrangheta prosegue. Dopo alcune scarcerazioni ordinate dal tribunale del Riesame (tra cui quella del capogruppo di Forza Italia in Comune a Reggio Emilia, Giuseppe Pagliani, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa) la procura di Bologna pensa già a un eventuale ricorso: “La linea dell’ufficio è quella di fare appello, salvo che non troviamo motivazioni particolarmente convincenti”. Ma sulle ’ndrine e su quanto emerso dagli arresti, dalle perquisizioni e dai sequestri di queste settimane, prosegue anche il lavoro del sostituto procuratore Marco Mescolini e degli altri investigatori: “Ci sono indagini da sviluppare su personaggi e fatti in particolare”, ha spiegato Alfonso.
E poi non c’è solo la ’ndrangheta per il pool antimafia bolognese. La relazione annuale della Dna lo ha certificato: Cosa nostra, Camorra casalese e napoletana, attirate in ultimo anche dal business della ricostruzione post terremoto, da anni infestano una terra che era esempio di civiltà. Ma Alfonso non si è sbilanciato: “Non sappiamo cosa verrà fuori dalle indagini che abbiamo. Probabilmente ce ne saranno che porteranno a dei risultati”.