Il cantautore marchigiano propone un album che, per esser compreso, richiede partecipazione assoluta e non solo assaggi sfuggenti. Rispetto ai lavori precedenti, Giardini si lascia andare ad aperture molto più ariose, facendogli padroneggiare le melodie come coltelli che sezionano i nervi giusti dell’ascoltatore. Di presa rapida sono i ritornelli su cui fanno perno pezzi come “Amare male” e “Seconda madre
C’era un tempo in cui, a Sanremo, s’imponevano all’attenzione del grande pubblico anche quei nomi destinati a brillare per lungo tempo nell’underground italiano. Uno di questi fu Moltheni, che nel 2000 calcò il palco dell’Ariston presentando la sua ballad “Nutriente”. Da allora il cantautore marchigiano ha fatto molta strada, anche se dal 2012 la sua storia artistica non si svolge più sotto il vecchio moniker, bensì come Umberto Maria Giardini, sua identità anagrafica.
Aver concluso il capitolo Moltheni ha significato, per il cantautore, ridare nuova linfa al suo percorso musicale, segnando simbolicamente una frattura con alcune logiche del mercato indipendente italiano che – a suo dire – l’avevano avvelenato. Dopo gli incoraggianti prodromi de “La dieta dell’Imperatrice” (2012) e l’Ep “Ognuno di noi è un po’ Anticristo” (2013), la conferma che Giardini sia in un momento di grande ispirazione arriva da “Protestantesima”, album uscito per La Tempesta e Woodworm. Il nuovo UMG è, ad essere sinceri, un Moltheni che si è naturalmente evoluto. Stilisticamente parlando non ci sono cesure nette con il passato, ma un affinamento di quel sentiero ormai riconoscibile a cavallo tra psichedelia, post-rock e cantautorato. “Protestantesima”, che vede la produzione di Antonio Cupertino, dispiega con raffinate geometrie molti degli elementi già riscontrabili nel passato di Moltheni: una scrittura tanto visionaria quanto efferata, progressioni strumentali ipnotiche unite ad una certosina attenzione ai particolari.
Quest’ultima fatica discografica, per esser compresa, richiede partecipazione assoluta e non assaggi sfuggenti. Solo così si possono rivelare all’orecchio tutte le policromie e i chiaroscuri nelle trame acustiche di “Seconda madre”, nelle sospensioni ultramarine di “Sibilla” o nella marzialità rock di “Protestantesima”. Le liriche, già cifra stilistica ai tempi di Moltheni, riservano sempre accostamenti originali e architetture retoriche affascinanti (“lacrime gemelle generate in modo atletico”, “quattro cancelli in un cervello”, “i preti e gli operai, le chiavi dei miei guai”). Altro tratto riconoscibile è l’attenzione per gli elementi naturali, che possono addirittura personificarsi (“chi prega gli alberi come me”, “eri tu la figlia di quel mare che geloso ti cacciò”). Giardini si riserva anche un’intera canzone – “Il vaso di Pandora” – per lanciare strali polemici contro una Milano cocainomane, citando esplicitamente la “piccola iena” di Manuel Agnelli.
Rispetto ai dischi precedenti, Giardini si lascia andare ad aperture molto più ariose, facendogli padroneggiare le melodie come coltelli che sezionano i nervi giusti dell’ascoltatore. Di presa rapida sono i ritornelli su cui fanno perno pezzi come “Amare male” e “Seconda madre”. Non ci sono episodi deboli, anche se bisogna registrare un’asimmetria nella disposizione delle tracce che va a tutto vantaggio della prima parte. Altri elementi di novità riguardano, innanzitutto, un maggiore uso di elettronica e una più determinante sezione ritmica. Arrangiamenti più nitidi e levigati dialogano, dunque, con testi meno rabbiosi e più disincantati rispetto al passato, confermando l’attitudine del cantautore a far viaggiare parallelamente materia sonora e vissuto personale.
“Protestantesima” è molto più di un buon disco. È un confronto a cuore aperto tra malinconie, resistenze e offensive. Qui, il protestantesimo sta tutto nell’ascesi intramondana, dove sentimenti lunari convivono con la ferocia delle tigri e l’umanità essenziale dei teschi.