Il Decameron ai tempi dell’Isis? Di sicuro, “Boccaccio, un toscano come noi, da sempre al nostro fianco”. Dopo lo scespiriano Cesare deve morire, gli arzilli ottantenni Paolo (83) e Vittorio (85) Taviani si sono guardati in casa: Maraviglioso Boccaccio. E chissà che non sia proprio il sequel del Giulio Cesare trapiantato nel carcere di Rebibbia con cui vinsero l’Orso d’Oro nel 2012: “In Cesare deve morire c’erano dei carcerati che alleviavano, anche se temporaneamente, la propria sofferenza grazie all’incontro con l’arte, che permette loro di conquistare una forma di libertà. Là era il teatro, qui le novelle. E che cosa sono le novelle se non arte e comunicazione artistica?“.
L’attesa trasposizione del Decameron non è andata alla Berlinale appena conclusa, ma arriva nelle nostre sale il 26 febbraio, con un’avvertenza d’uso: ragazzi e ragazze, fatevi sotto, questo film è soprattutto per voi. “Avevamo voglia di avvicinarci ai nostri giovani e a questo presente brutale che li esaspera”, dicono all’unisono i registi, e la chiave d’accesso alla generazione dei propri nipoti si chiama peste. Così apre il film, con estetica da mozzare il fiato, messa in scena elegantissima, costruzione del quadro superba: l’aggiornamento dell’epidemia, lungi dal rincorrere lo status quo, va nella direzione del paradigma, del simbolico, con immagini estatiche, pittoriche e raziocinanti abitate da cavalli stramazzati, maiali agonizzanti, corpi gettati nelle fosse come abbiamo visto ad Auschwitz. Tutto scorre, nulla muta.
Supportati dalla fotografia ieratica di Simone Zampagni, sostenuti dalla partitura dissonante di Giuliano Taviani e Carmelo Travia, Paolo e Vittorio inquadrano l’eternità del male e degli unici possibili antidoti, il convivio e il cenacolo: non la Firenze trecentesca colpita dalla peste, bensì il mondo bersaglio quotidiano di un’apocalisse uguale e diversa; non la fuga dal mondo di sette ragazze e tre ragazzi, bensì… un moderno circolo giovanile del Pd. Si scherza, ovvio, sebbene le sette pulzelle abbiano incarnati, chiome e movenze da Maria Elena Boschi e, soprattutto, da Marianna Madia: forse è lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, forse aiuta la cornice toscana (location anche nel Lazio), forse che è un “film sensuale, ma di una sensualità latente”, fatto sta che t’aspetteresti pure una novella sul Jobs act. Ebbene no, non chiederlo al poeta: il respiro dei Taviani è autoriale, travalica derive politicanti e apparentamenti spicci per guardare oltre, agli “uomini in abito nero che tagliano la testa ad altri uomini in abito arancio, ai trecento disperati che muoiono in mare affondati coi loro barconi della speranza, ai giovani, i nostri prima di tutto, che sono talmente disillusi da non cercare nemmeno più lavoro: abbiamo pensato che la peste raccontata da Boccaccio fosse tornata”.
E allora seguiamo questi giovani che vanno via dalla pesta folla e si rifugiano in collina: non a pomiciare, non a fornicare, che non è cosa, piuttosto per salvarsi e rianimarsi raccontando storie e storielle. Ma quali sono queste novelle? “Non lo riveliamo. Il pubblico, noi lo amiamo, deve entrare in sala ignaro, abbandonarsi all’emozione della scoperta”, chiedono i Taviani. Accontentiamoli, esplicitiamo solo gli attori che le interpretano: Arena, Cortellesi, Crescentini, Parenti, Puccini, Riondino, Rossi Stuart, Scamarcio, Smutniak, Trinca e Vagni, chiamati a incarnare quella ‘fantasia’ che insieme a ‘l’orrore’ della pestilenza e ‘la voglia di vivere’ dei ragazzi forma il terzo vertice del Maraviglioso triangolo.
“Abbiamo voluto – dice Vittorio – raccontare quello che gli uomini possono fare di grande e di misero, di bello e di brutto. Raccontare è una ricchezza infinita, anche in negativo. C’è qualcosa di Boccaccio che parla a tutti noi”. E il testimone passa ai giovani, passa a Jasmine Trinca, che mette l’accento sull’eternità: “La peste rappresenta una fase di stallo, ma prelude anche al risveglio del desiderio di creare comunità e di raccontare. Tutto questo non passerà mai”. Già, Boccaccio non deve morire.
il Fatto Quotidiano, 21 Febbraio 2015