"Questo suo libro avrebbe potuto intitolarlo “Confesso che ho vissuto”, se Pablo Neruda non l’avesse preceduto di una quarantina d’anni. C’è chi rimprovera a Massimo di aver dissipato il suo enorme talento, come se del talento si potesse fare un uso diverso che sperperarlo. Lui lo ha fatto nel solo modo consentito a un vero giornalista: con le letture giuste, con la scrittura, con l’integrità delle proprie idee. Ma soprattutto contando sull’incommensurabile ignoranza dei suoi colleghi"
Mi ha sorpreso non trovare nell’ultimo libro di Massimo Fini, Una vita, il nome del centravanti Ruud van Nistelrooij, “ il grande Ruuud”, come lui lo invocava nelle nostre innocenti evasioni telefoniche, che originate da qualche intemperanza verbale nella sua rubrica settimanale sul Fatto scivolavano felicemente verso una privatissima fumeria d’oppio, il calcio. Ho sempre sospettato che a lardellare di sanguinose ingiurie la coda dei suoi scritti Massimo lo facesse apposta per poi attaccar briga e quindi addivenire a un onorevole compromesso (onorevole più per lui che per me che ero il direttore). Esaurito il negoziato si poteva finalmente dare fondo all’erudizione pallonara e al duello a colpi di dotte citazioni. Su “Ruuud” gli lasciavo volentieri campo libero: avendo il mio rivale scommesso intere fortune sulle prodezze dell’attaccante di Manchester United e Real Madrid, gli attribuivo una sorta di libera docenza in materia al cui cospetto tacevo deferente. Non sempre era così. Poco tempo fa con Massimo demmo vita a un ignobile scazzo in quel di San Pellegrino Terme invitati entrambi a parlare dell’universo mondo.
Sul palco ci eravamo mandati a quel paese a proposito del profilo morale del Mullah Omar: secondo lui un eroe di cristallina purezza nella lotta contro l’imperialismo yankee; secondo me un furfante talebano datosi a ignominiosa fuga inforcando una moto. Più tardi, a tavola, tutto sembrava ricomposto quando mi venne la pessima idea di contraddirlo sull’Olanda del calcio totale anno 1974. Come due vecchi rimbambiti ci scannammo su chi fosse stato lo stopper degli Orange, forse per qualche bicchiere di troppo, forse per fare colpo su alcune signore che per la verità ci osservavano schifate. Mi sarebbe piaciuto essere amico di Massimo Fini negli anni 70 e respirare l’ebbrezza di quel giornalismo felice e sconosciuto che non è un lavoro ma un dono degli dei accompagnato dallo stupore che alla fine del mese ti paghino pure.
Saremmo andati in giro nella Milano da bere a esibire la nostra giovinezza oltraggiosa, e sempre bastian contrari, a contestare Craxi nei salotti craxiani e a parlare male dei comunisti quando parlarne male era come bestemmiare in chiesa: èpater le bourgeois. Poi, la sera a caccia di ragazze e con il bicchiere della staffa ci sarebbe scappata, chissà, anche una bella scazzottata. Lo so, ho usato tutti i peggiori stereotipi del genere, ma Fini quella vita fatta così se l’è bevuta fino all’ultimo goccio e questo suo libro avrebbe potuto intitolarlo “Confesso che ho vissuto”, se Pablo Neruda non l’avesse preceduto di una quarantina d’anni. C’è chi rimprovera a Massimo di aver dissipato il suo enorme talento, come se del talento si potesse fare un uso diverso che sperperarlo. Lui lo ha fatto nel solo modo consentito a un vero giornalista: con le letture giuste, con la scrittura, con l’integrità delle proprie idee. Ma soprattutto contando sull’incommensurabile ignoranza dei suoi colleghi.
Tutto il resto non è giornalismo ma carrierismo, rispettabile attività molto praticata nelle redazioni e ben inquadrata nell’aforisma di un perfido editore: nei giornali i più dotati scrivono, i meno dotati fanno i direttori. A leggere Una vita, Fini qualche direzione l’ha pure sfiorata, ma al momento di pronunciare il fatale sì l’angelo del libertinaggio deve avergli messo una protettiva mano sulla testa. Così si è risparmiato un’esistenza grama, quella di chi dirige i giornalisti, un masochista inseguito dalle lamentazioni dei propri sottoposti e dalle carte bollate degli altrui avvocati. Più che un lavoro difficile, inutile.
Questo è il meglio che posso dire di Massimo Fini. Tutto il peggio, invece, se lo è scritto da solo in 242 pagine che i suoi nemici (ma soprattutto le donne con cui ha ingaggiato una spettacolare guerra dei sessi) apprezzeranno. A cominciare dalla copertina dove spiccano non uno, ma ben cinque ritratti del super-narciso: dall’infante con i boccoli biondi al tombeur de femmes, con Gauloises tra le labbra e sguardo assassino. Comunque gli sono debitore di una bellissima lettera e di una scommessa perduta. Nella missiva mi ha spiegato ciò che non ero mai riuscito a spiegarmi così bene a proposito della distinzione fra gli uomini che amano il calcio e gli altri. Sentite qua: “Perché è una passione gratuita. Che cosa viene al tifoso se la sua squadra vince o perde? Quante volte uscendo da San Siro col morale a terra perché il Toro le aveva regolarmente buscate dal Milan o dall’Inter di allora mi sono chiesto il perché: a casa mi aspettava una sposa innamorata e un figlio piccolo, adorato. Nel tifo c’è il ‘fanciullo che è ancora in noi’ e che, disperatamente non vuole morire”. Perfetto. La scommessa riguarda la formazione dell’Olanda 1974. Lo stopper non era Krol ma Rijsbergen. Avevi ragione tu, vecchio mio.